Il Cavaliere resta solo con Gianni Letta: cambio tutto se mi assolvono

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E non c’è dubbio che se i giudici decidessero per il rinvio in Appello con annullamento della sentenza, l’esito della causa verrebbe accolto con un sospiro di sollievo in gran parte dei palazzi della politica, di sicuro in quelli che contano, compreso Palazzo Chigi.

È assai probabile che ieri l’argomento sia stato affrontato da Berlusconi con Gianni Letta, l’unico che — dopo l’incontro della sera prima con Alfano — abbia avuto accesso alla residenza del Cavaliere fino al tardo pomeriggio. L’isolamento dell’ex premier, voluto anzi desiderato, è stato violato solo dai suoi legali che dalla Cassazione lo tenevano informato sullo svolgimento della causa. L’intervento del relatore aveva fatto ben sperare Berlusconi. La requisitoria del pg invece è stata vissuta in modo assai pesante, specie per quel passaggio in cui l’accusa lo ha definito «l’ideatore del meccanismo di frodi fiscali»: «Su questa frase i giornali mi massacreranno», ha commentato il Cavaliere, che tuttavia non ha smarrito la speranza infusagli dal professor Coppi.

Come un leone in gabbia, il leader del centrodestra ha continuato a tormentarsi. Un sentimento condiviso con la figlia Marina, pronta a raggiungerlo a Roma per la sentenza, e che — al pari del padre — è stanca delle tante interpretazioni, delle tante conclusioni a cui potrebbe giungere il processo e di cui ha sentito discutere negli ultimi tempi: che facciano presto, non se ne può più di questa attesa snervante. È evidente che la componente umana in questo affare di Stato ha un peso, e Berlusconi (Silvio) ne porta il carico maggiore, sebbene gli effetti si riprodurrebbero sull’intero sistema. Un verdetto che riportasse il caso Mediaset in Appello, garantirebbe a Letta (Enrico) una navigazione relativamente più tranquilla alla guida del governo, una condanna del Cavaliere gli spalancherebbe invece sotto i piedi le porte dell’inferno.

Politicamente, in caso di sentenza avversa, il capo del Pdl ha più volte detto che terrà «fede alla parola data», che cioè non farà mancare l’appoggio all’esecutivo di «larghe intese». Per certi versi sarebbe una mossa obbligata, siccome la crisi porterebbe al caos e spetterebbe al Cavaliere pagarne il conto. Ma a Pa alazzo Chigi come nel partito di Berlusconi si rendono conto che una cosa è ragionare a freddo, un’altra è affrontare la questione dopo un verdetto che espellerebbe il leader del centrodestra dal Parlamento. I ministri del Pdl devono aver intuito che il Cavaliere non chiederebbe mai le loro dimissioni, che forse (forse) si aspetterebbe da loro un gesto. A meno che…

A meno che proprio Berlusconi, tenendo a freno l’istinto, decidesse di non mollare la presa sul governo, impedendo mosse avventate come ha fatto in questa ultima fase: così toccherebbe sempre e solo a lui l’ultima parola. D’altronde, se ai tempi di Monti il saldo politico è stato negativo, con Letta (Enrico) il saldo per ora è positivo, come testimoniato dai sondaggi. Se questa fosse la decisione, qualora si avverasse la peggiore delle ipotesi, il Cavaliere manterrebbe il profilo «responsabile» che si è dato, scaricando sul Pd l’eventuale responsabilità dello strappo. E Letta (Enrico) sa che il suo partito difficilmente potrebbe reggere: come farebbe infatti la «ditta» ad andare a congresso mentre è ancora alleato con un Pdl il cui capo è stato condannato? Come potrebbe gestire allo stesso tempo l’assedio di Renzi e l’accerchiamento di una base già in rivolta, senza correre il rischio della spaccatura?

Ecco perché la causa in Cassazione contro Berlusconi è un affare di Stato. Il resto è attesa, e nell’attesa il Cavaliere ha già anticipato le sue prossime mosse ai dirigenti del Pdl. «Se mi assolvono, facciamo Forza Italia. Se mi condannano, vi darò l’indirizzo a cui mandarmi le arance». Comunque vada cambierà tutto. Berlusconi è pronto a cambiar tutto, nel partito, nell’entourage, nello staff legale. Lo ha deciso da quando davanti a lui il professor Coppi ha fatto il Bartali, e gli ha detto che era tutto sbagliato tutto da rifare, nell’approccio processuale come in quello politico.

Francesco Verderami


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