LA GRANDE SETE

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Secondo un antico detto taoista, «dopo averla bevuta, una coppa di vino può portare con sé cento strofe». L’assunto è presto detto: alcol e letteratura costituiscono un connubio tanto antico quanto geograficamente ampio. La loro sacra unione affonda nei millenni, per realizzarsi praticamente in ogni tipo di civiltà. Ciò che cambia, è soltanto la forma assunta via via dallo spirito (con l’iniziale minuscola, per distinguerlo da quello di Hegel). Birra, distillati e vino, sono così evocati nei luoghi e nelle culture più diverse come preziosi, talvolta indispensabili alleati nell’esercizio della scrittura. Ma già dire “vino” solleva un problema. Come possiamo infatti definire tale, almeno rispetto alle nostre abitudini, la potentissima salsa che i romani amavano diluire attentamente durante i loro sterminati banchetti? Cosa pensare, poi, delle infinite varietà di acquavite, estratte da tante piante nel corso dei secoli? E quanto alle coppe che circolano vorticosamente nelle quartine composte all’inizio del 1100 dal poeta persiano Omar Khayyam, che cosa avranno davvero contenuto? «Esser, non esser, salvezza, destino, / cielo, inferno e misteri… Ah parolai! / Con tutto il mio studiare io non trovai / che una cosa quaggiù profonda: il vino».
Insomma, evitiamo il rischio di smarrirci nell’immensa foresta delle varietà etilico-letterarie, dalla Scandinavia al Messico, dalla Grecia alla Cina, e riprendiamo il nodo della questione, costituito appunto dal quasi indissolubile legame tra versi, prosa e alcol. Il tema è di recente tornato alla ribalta grazie a due saggi apparsi sul mercato anglosassone e accolti con vivo interesse. Si tratta di The Trip to Echo Spring, di Olivia Laing (Canongate) e di TheWet and the Dry. A Drinker’s Journey, di Lawrence Osborne (Crown). Il titolo del primo è ispirato a una battuta del dramma di Tennessee Williams La gatta sul tetto che scotta, quando uno dei personaggi ricorre all’espressione “trip to Echo Spring” per indicare il bourbon. Da notare, di passaggio, che il precedente libro della Laing, To the River, era stato dedicato ai rapporti fra la letteratura inglese e l’acqua… Al contrario, il suo nuovo volume si concentra sull’opera “alcolica” di sei scrittori americani, ossia Hemingway, Williams, Carver, Cheever, Berryman e Fitzgerald. Ma i nomi da aggiungere sarebbero molti altri, con Poe, Faulkner, Hart Crane, Truman Capote, Dorothy Parker, Raymond Chandler, Jack London, Jack Kerouac, Charles Bukowski, Anne Sexton e Patricia Highsmith, in una sterminata lista composta da adoratori di Bacco. Volgendosi poi agli inglesi, che dire di Malcom Lowry, Dylan Thomas o Philip Larkin?
Quanto al testo di Osborne, si tratta invece di un viaggio vero e proprio, intrapreso nel mondo musulmano per osservare l’impiego degli alcolici sotto una prospettiva priva di preconcetti. Partendo dalla constatazione che Oriente e Occidente esistono fianco a fianco, «in un atteggiamento di reciproca incomprensione», l’autore si spinge attraverso l’Oman, la Turchia, l’Egitto, il Pakistan e gli Emirati Arabi, alla perenne ricerca di un drink. La sua provocazione scatta esattamente alle 18,10 (improrogabile limite del cocktail), e lo conduce spesso in situazioni di estremo pericolo. Dietro lo scontro fra civiltà, sembra suggerirci, può nascondersi anche un differente uso delle bevande.
Inutile dire che entrambi i volumi pullulano di citazioni. Infatti una fra le caratteristiche del rapporto che stringe alcol e letteratura, consiste nel piacere di commentare, e assai spesso addirittura cantare, la sostanza cui tanto deve l’ispirazione. È come se la gratitudine degli autori verso la loro liquida musa li spingesse a sdebitarsi dei tesori scoperti grazie a lei. Non per niente, nella Parigi di fine Ottocento, i poeti maledetti ribattezzarono il letale assenzio con il nome di “fata verde”. In effetti, c’è qualcosa di magico nell’idea di poter attingere un grado superiore di conoscenza e d’arte ricorrendo a ingredienti fermentati. L’alcol, in definitiva, pare agire alla stregua di quelle “brecce” di cui parlò Henri Michaux a proposito delle droghe (sulla scia di Confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quincey), ovvero dischiudendo alla coscienza dimensioni ulteriori, inaudite. È quanto grosso modo sostengono d’altronde Hemingway («Scrivi da ubriaco; correggi da sobrio») o Cheever («L’eccitazione data dall’alcol e quella data dalla fantasia sono molto simili»). Certo, la dipendenza dal bere può essere provocata da traumi infantili. Olivia Laing menziona per esempio il suicidio del padre (nel caso di Berryman e Hemingway) o l’anaffettività della madre (che afflisse in particolar modo Cheever). Ma Tennessee Williams è perentorio: «Perché un uomo beve? Due sono le ragioni, unite o separate: 1. Ha una paura matta di qualcosa 2. Non riesce a affrontare la verità».
Accanto a tutto ciò, si dispega poi un’autentica fenomenologia dei gradi etilici. Stando a Osborne, «la birra e il vino sono fatti per gli amici, ma i distillati per chi beve da solo», salvo precisare: «La vodka è come un clistere per l’anima». Chissà cosa direbbe al riguardo Sapo Matteucci,
che un paio d’anni fa pubblicò il manuale-diario pamphlet C’era una vodka. Un’educazione spirituale da 0° a 60° (Laterza)? Senz’altro in disaccordo sarebbe la messe degli scrittori russi che, da Tolstoij a Dostoevskij, da Erofeev a Dovlatov, soggiacque, più o meno consenziente, all’insinuante richiamo del liquore (lo ricorda fra gli altri The Dedalus book of Vodka di Geoffrey Elborn, appena edito da Dedalus). Ma nel crudele bilancio fra vantaggi e svantaggi, avere e dare, euforia artistica e cirrosi epatica, la parola definitiva rimane forse quella di Ernst Jünger, che nel suo saggio Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza (Guanda), vasta escursione dall’alcool fino all’acido lisergico, conclude amaramente: «Nell’ebbrezza […] porzioni di tempo vengono anticipate, amministrate in modo diverso, prese in prestito; e questo prestito va restituito».


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