L’IMMATERIALE ALLA CONQUISTA DEL POTERE

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Per la tradizionale metafora chi è ricco «ha una posizione solida»; ma non si può attribuire non solo «solidità», ma persino «posizione» a quelle ricchezze che si calcolano in pensiero, innovazione, bellezza e proprio per questo non contribuiscono in modo tangibile e computabile ai fatturati, ai dividendi e alle stock option.
Il problema è che quello di creatività è un concetto sin troppo confuso. Nacque proprio negli Usa, negli anni Cinquanta, quando si accorparono le riflessioni di scienziati, inventori, filosofi, artisti di tutto il mondo e di tutte le epoche, da Mozart ad Einstein, da Aristotele a Picasso per provare a capire il modo in cui la mente umana arriva a progettare nuovi assetti, escogitare nuove soluzioni, ribaltare le tradizioni, in qualsiasi settore. La creatività divenne poi un mito per tutti: copywriter e indiani metropolitani, industriali ed eversori, cuochi e filosofi, scrittori e stilisti, cronisti e blogger. Definire la creatività risulta però impossibile, perché è un mito, e non un principio filosofico. Ma una delle idee di creatività più interessanti la vede proprio come quell’elemento non quantificabile, immateriale, in sé inutile e improduttivo senza il quale, però, non c’è cambiamento ma replica dell’uguale.
Il Pil non è solo roba pesante, cemento, acciaio, container e pallet di merci importate ed esportate: c’è un Pil immateriale, la cui sostanza è fatta di idee, parole, astrazioni e nell’ammetterlo si fa un grande passo avanti. Ma infine si spera che questo passo non inauguri una strada che finisca coll’imporre nuovi balzelli sulle buone idee. La finanza creativa certo ne sarebbe capacissima.


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