Ecco dov’è finito il made in Italy negli anni della Grande Crisi

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Niente paura. Nessuna linea Maginot da erigere a protezione delle nostre aziende. Tanto meno la volontà di rilanciare il dibattito sulla necessità dell’intervento statale misto a un campanilismo vecchia maniera non più adeguato ai tempi del commercio globale. Solo una ricognizione sul made in Italy “venduto” agli stranieri nei cinque anni della Grande Crisi tra luoghi comuni da sfatare, insicurezze da dissipare, persino qualche buona notizia nel Belpaese preda degli appetiti degli investitori esteri a caccia di marchi riconosciuti. Dal 2009 ad oggi sono state acquisite da imprenditori/fondi d’investimento/fondi sovrani 363 aziende italiane per un controvalore di circa 47 miliardi di euro. Lo studio realizzato dalla società di revisione Kmpg per il Corriere della Sera testimonia come il picco si è avuto nel 2011 quando sono state 109 le operazioni sul mercato italiano, mentre nei primi sei mesi del 2013 si è in linea con gli anni precedenti (42 acquisizioni per un ammontare di 4,1 miliardi di euro) nonostante «la dura recessione economica». Da Bulgari acquisita dalla holding del lusso Lvmh per 4,3 miliardi di euro (2011) alla Parmalat finita nelle mani francesi di Lactalis per 3,7 miliardi (stesso anno). Dalla più recente Loro Piana, rilevata all’80% dallo stesso gruppo emanazione dell’imprenditore Bernard Arnault (2013) alla Coin controllata dal fondo inglese di private equity Bc Partners a fronte di una spesa di 906 milioni di euro (sempre nel 2011). E ancora: la Ducati comprata dalla tedesca Audi del gruppo Volkswagen per 747 milioni (2012) e il gruppo Valentino ora di proprietà di Mayhoola for Investment, società riconducibile allo sceicco Hamad bin Kahlifa al Thani, emiro del Qatar. L’elenco potrebbe proseguire con Moncler, Ferré, Bertolli, Orzo Bimbo, Cesare Fiorucci e Ferretti yacht (ora cinese), ma è da smentire lo stereotipo che le acquisizioni da oltrefrontiera siano accelerate da sette trimestri consecutivi di Pil italiano negativo. In realtà gli investimenti diretti esteri seguono una dinamica speculare alla situazione economica del sistema-Paese di destinazione. Nel 2007 – l’ultimo anno di crescita sostenuta – le operazioni sul mercato italiano avevano toccato la cifra record di 28,4 miliardi di euro. Innocenzo Cipolletta, neo-presidente del Fondo Italiano d’Investimento (la società di gestione del risparmio compartecipata dal ministero del Tesoro, da Cdp, Abi, Confindustria e alcune banche-sponsor) è convinto che guardare gli investitori esteri con diffidenza sia un clamoroso errore di valutazione: «Ogni acquisizione è una prospettiva di sviluppo per l’impresa in sé, perché apre nuovi mercati e suggerisce nuove piattaforme distributive per i prodotti del made in Italy. Semmai dobbiamo preoccuparci del perché poche aziende italiane comprino oltre-frontiera, ma qui l’accento è da porre sul basso accesso ai capitali di rischio delle nostre imprese, poco interessate a quotarsi in Borsa per il terrore di perdere il controllo della società». Analisi condivisa da Giuseppe Latorre, partner Kpmg corporate finance. Punta il dito contro «la nostra ossessione del controllo» e invita a «non dispiacersi per l’eventuale perdita di sovranità». Colpisce però come la politica di acquisizione di aziende italiane porti persino a un aumento del numero di addetti, al netto di un eventuale accentramento delle funzioni di staff che invece fuggono altrove. Secondo uno studio del Politecnico di Milano il numero di lavoratori italiani che lavorano per conto di aziende a ragione sociale estera è di oltre 886mila (dato 2012), in crescita di oltre 30mila unità rispetto al 2005. Spiega Stefania Trenti, economista dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo, come il nuovo fronte riguarda i servizi professionali: «L’apertura di filiali italiane da parte di grandi studi legali internazionali crea posti di lavoro ad alto valore aggiunto».

Fabio Savelli
Arcangelo Rociola


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