I militari nel vicolo cieco il Paese non è più lo stesso

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E così l’inevitabile conseguenza, che tra tante promesse di conciliazione fa invece temere una guerra civile, è l’ulteriore polarizzazione delle due componenti più forti della società egiziana, quella musulmano-moderata e quella islamista.

Risultava evidente, questo triste risultato, nelle contrapposte manifestazioni di massa che ieri hanno spaccato in due il Cairo e le altre città egiziane. Soltanto una massiccia presenza di mezzi corazzati nelle strade ha evitato incidenti più gravi di quelli che hanno avuto luogo. Ma il messaggio politico complessivo venuto dai dimostranti è risultato chiarissimo: gli anti-Morsi sono maggioranza (anche perché nei loro ranghi militano i nostalgici di Mubarak) , gli islamisti restano numerosi e bene organizzati, e nessuno dei due campi ha la minima intenzione di dialogare con l’altro.

Non è dunque facendo appello alla piazza che i militari usciranno dal vicolo cieco nel quale si stanno cacciando assieme all’intero Egitto. Ed è improbabile che serva a calmare gli animi il tempismo piuttosto provocatorio con il quale la Procura ha annunciato proprio ieri mattina che Morsi è accusato di aver complottato con Hamas nel 2011, e per questo resterà sotto custodia almeno altri quindici giorni. Si direbbe che Al Sisi non creda più alla possibilità di prendere a bordo gli islamisti e si prepari dunque a colpirli con decisiva determinazione, ma è proprio da uno scenario del genere che può nascere, in questo Egitto che malgrado tutto è cambiato, la scintilla della guerra civile. E nell’attesa il generale, dimostrando di essere lui a tirare tutte le fila, svuota il Presidente in carica da lui stesso nominato, ridicolizza l’autorità del governo di transizione, macchia la neutralità super partes che aveva reso popolarissime le Forze armate, e in definitiva moltiplica i dubbi — già forti anche tra i moderati e i liberali — sulla effettiva possibilità di tenere libere elezioni nei primi mesi del 2014.

A ben vedere Al Sisi e Morsi, ognuno a modo suo, sembrano essere caduti nello stesso errore di fondo: quello di credere che la pur fallita e tumultuosa Primavera non abbia cambiato l’Egitto e gli egiziani. Morsi ha ritenuto di poter piazzare ovunque i suoi uomini, di poter far approvare in una notte un testo costituzionale ispirato più dalla fede religiosa che da scrupoli di legge, di poter emettere un decreto nel quale di fatto si collocava al di sopra di ogni altra istanza, il tutto perché a coprirlo c’era una risicata anche se storica vittoria elettorale. I milioni di egiziani scesi spontaneamente in piazza il 30 giugno scorso gli hanno risposto che non intendono più sottomettersi a un «uomo forte» né, tantomeno, alla sua visione religiosa e di partito. Al Sisi è diverso da Morsi, detiene il monopolio della forza militare, ma il trattamento riservato al Presidente deposto malgrado gli inviti alla trasparenza lanciati da americani ed europei, e il suo apparente predisporsi a una azione di «pulizia> nei confronti dei Fratelli Musulmani, paiono nascere dal convincimento errato che si possa tornare al tempo di Mubarak, che i Fratelli possano essere risospinti verso una sostanziale clandestinità con gli antichi argomenti del bastone e della paura. Per quanti dirigenti del movimento vengano arrestati o processati (compresa la «guida suprema» Mohammed Badie) , è poco probabile che la manovra, se è davvero questa, vada in porto. Piuttosto si assisterà a una ulteriore radicalizzazione degli islamisti, con i salafiti — sulla carta quelli che dovrebbero maggiormente spaventarci — pronti a trarre profitto dal logoramento dei Fratelli Musulmani. Un logoramento, peraltro, che si verificherà soltanto se Morsi non diventerà un martire.

La stabilizzazione dell’Egitto continua dunque a presentarsi come un rebus. Un rebus sul quale non sembrano pesare quanto dovrebbero la mancata ripresa della trattativa con il Fondo monetario per ottenere un prestito che ne attirerebbe altri, lo stato disastroso delle finanze pubbliche, il fatto che i dodici miliardi di dollari arrivati dalle monarchie del Golfo (Arabia Saudita in testa, per dispetto verso il Qatar che finanziava Morsi) non sono donazioni disinteressate. Eppure soltanto l’economia, nell’Egitto di oggi come nella vicina Tunisia appena turbata da un omicidio politico, può raccogliere la sfida della militanza religiosa. E forse anche quella delle armi.


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