Abiti puliti, coscienze meno
Sei pagine. Il futuro di milioni di persone è tutto lì, in un contratto stringato di sei pagine con cui le multinazionali dell’abbigliamento si impegnano a garantire la sicurezza dei lavoratori. Anche quelli esterni. Anche i tessitori low cost nei paesi dell’Est. Sono passati esattamente tre mesi dal crollo del Rana Plaza, lo stabilimento della periferia di Dhaka, in Bangladesh, in cui hanno perso la vita 1129 persone. Le foto della tragedia, i corpi travolti, i due ragazzi morti abbracciati nella polvere, sono diventate il simbolo di una situazione insostenibile: magliette, pantaloni, giacche e cappellini venduti in tutto il mondo da giganti come H&M, Mango o Abercrombie & Fitch, sono prodotti ogni giorno in posti fatiscenti come quello franato il 24 aprile.
Sindacati e associazioni hanno deciso così di dire basta. Li hanno già seguiti oltre 60 aziende, da Zara a Carrefour, da Benetton a Esprit, che hanno firmato “l’Accordo per la sicurezza dei palazzi in Bangladesh”, un testo di sei pagine in cui una cosa, per la prima volta, viene messa nero su bianco: i marchi saranno responsabili, anche legalmente, degli standard di sicurezza garantiti dalle ditte esterne a cui affidano la produzione. Dovranno garantire controlli costanti. Allontanare le aziende che non li rispettano. Iniziare a pagare, insomma, il prezzo della produzione low cost in un paese, il Bangladesh, in cui l’industria dell’abbigliamento vale 19 miliardi di euro l’anno, l’80 per cento delle esportazioni nazionali.
A muovere H&M, Puma o Camaieu, è stato anche il milione e mezzo di persone che hanno firmato su Avaaz (una piattaforma globale che raccoglie battaglie per i diritti) una petizione a favore dell’accordo. Firme che non sono bastate però a convincere Gap e Walmart, che ad oggi non hanno ancora preso quest’impegno: «Dicono di avere pronto un altro programma», spiega Ian Bassin, promotore della campagna contro Glenn Murphy, il Ceo di Gap che rifiuta il piano proposto dai sindacati: «Ma non è un’alternativa: l’accordo che proponiamo noi è legalmente vincolante. Il loro no. E i controlli volontari c’erano anche prima, ma come dimostra la tragedia del Rana Plaza, non hanno funzionato».
In Rete, con pubblicità comprate sui giornali, proteste davanti ai negozi e mail alla direzione, le associazioni stanno cercando di convincere anche Gap a prendere sul serio la questione. Sperando che la battaglia non si fermi lì: «L’accordo sul Bangladesh dovrebbe diventare l’opportunità per stabilire nuovi standard», continua Bassin: «Anche in altri paesi. I consumatori sono sempre più attenti, iniziano a decidere anche in base all’origine dei prodotti: è successo per quelli alimentari, succederà anche nella moda. E’ nell’interesse dei marchi quindi farsi carico di questo impegno». Una speranza, forse, più che una certezza, ma intanto un accordo c’è e con quello i 64 brand che hanno deciso di firmarlo.
E c’è un altro fronte in discussione a Dhaka a tre mesi dalla tragedia: i risarcimenti per le vittime. La cifra stimata per sostenere le famiglie o farsi carico delle spese mediche dei lavoratori feriti si aggira intorno ai 54 milioni di euro. In questi giorni, anche dopo l’impatto della campagna internazionale “Abiti Puliti“, sono iniziati gli incontri fra familiari e aziende. Tra i marchi invitati ci sono Benetton, Mango, Walmart e Walt Disney, che avrebbero effettuato ordini alla fabbrica coinvolta nel crollo del Rana Plaza o in quella (chiamata Tazreen) distrutta cinque mesi prima in un incendio. «Ad oggi nessuna azienda, a parte l’inglese Primark, si è realmente impegnata a contribuire al fondo di risarcimento così come previsto dallo schema proposto dai sindacati», spiega Deborah Lucchetti di Abiti Puliti: «Dobbiamo farci sentire».
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