Lavoro, 250 mila posti in meno nel 2013
ROMA — Il bilancio è negativo: quasi un milione di “uscite”, 750.000 “entrate”, 112.000 in meno rispetto al 2012. Il mercato del lavoro si avvia a chiudere il 2013 con 250.000 posti di lavoro persi, secondo le previsioni delle imprese dell’industria e dei servizi: il 35% si trova nel Mezzogiorno, il 78% si concentra nelle imprese di piccole dimensioni. Tra i settori più colpiti turismo, commercio e costruzioni. L’indagine Excelsior Unioncamere-Ministero del Lavoro registra una quota modestissima di imprenditori che quest’anno progettano di assumere nuovi lavoratori, appena il 13,2%; nel 2008 erano il 28,5%, nel 2011 il 22,5%. Cala ancora la quota di assunti under 30 (passano al 32,8% dal 35,5% del 2012). Un andamento che si riflette nel pessimismo delle nuove previsioni del Fondo monetario internazionale: Pil ancora in calo dello 0,6% nel 2013 nell’area euro, ripresa piuttosto modesta solo nel 2014 con
un +0,9%, disoccupazione al 12,3% quest’anno e al 12,4% l’anno prossimo, con livelli record per i giovani, e conseguenti «rischi di danni a lungo termine alla potenziale crescita e al sostegno politico alle riforme, incluse quelle che riguardano i passi in avanti nella costruzione dell’unione monetaria europea».
Eppure i dati offrono anche alcuni spiragli positivi sul mercato del lavoro italiano: c’è uno zoccolo duro di imprese che esportano e che sono fortemente impegnate anche sotto il profilo dell’innovazione. «In questi due ambiti si raccolgono spazi per la crescita del paese, anche per i giovani», commenta il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello. Un ottimismo condiviso dal ministro del Lavoro, Enrico Giovannini: «Gli indicatori Ocse, i dati Istat sugli ordinativi e quelli sulla fiducia delle imprese indicano che qualcosa si sta muovendo, anche se non è una ripresa esplosiva. Dobbiamo cercare di rafforzare questo recupero, che ci aspettiamo per la fine dell’anno».
Altri aspetti positivi, sottolinea Domenico Mauriello, responsabile del Centro Studi Unioncamere, sono costituiti dall’aumento della quota di assunzioni a tempo indeterminato (il 20,3% delle entrate previste dalle imprese dal 19,3% del 2012) e da una maggiore incidenza delle professioni high skill.
Aumenta la quota di laureati (15,9% tra le assunzioni non stagionali, contro il 14,5% dell’anno scorso) e dei diplomati (43,5% contro il 40,9% del 2012). Tra quelle che l’indagine definisce «le professioni che sfidano la crisi» spiccano tecnici informatici, telematici e delle comunicazioni, specialisti in campo ingegneristico, della vendita e del marketing. Nell’industria «solo il settore chimico-farmaceutico mantiene un’apprezzabile propensione ad assumere».
Nonostante i troppi disoccupati, «permane il paradosso del disallineamento tra domanda e offerta»: 46.900 assunzioni non stagionali, il 12,8% del totale, rischiano di non andare in porto. Meno degli anni passati, ma ancora fin troppe. Un mismatch che non è certo dovuto al fatto che i giovani rifiutino lavori considerati poco attraenti, sottolinea Giovannini, quanto alla scarsa funzionalità del sistema: «Solo il 3% delle imprese ha usato i centri per l’impiego, la ricerca di lavoratori da assumere si basa in gran parte sul passaparola, che non è certo lo strumento migliore. Tra gli obiettivi principali della riforma c’è anche l’introduzione di nuovi sistemi di avviamento al lavoro ».
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