«Sì ai rimborsi, solo se certificati Un unico tetto da 30 milioni»

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Il finanziamento pubblico dei partiti è morto, viva il finanziamento pubblico. A sinistra, mentre si discute su come farlo sparire ma senza rinunciare ai soldi dello Stato, c’è chi ora apertamente lo rilancia.

Scrive Fabrizio Barca nel documento per il nuovo Pd: «La copiosità del finanziamento pubblico ai partiti, mirando a liberare i partiti stessi dal condizionamento dei fondi neri provenienti dalla degenerata conduzione dei grandi enti pubblici nazionali o locali, li ha in realtà legati stabilmente allo Stato, sancendo e accrescendo la loro non dipendenza dal contributo degli iscritti, il cui controllo sul partito si è così vieppiù ridotto». I dati parlano chiaro: uno studio dei politologi Piero Ignazi ed Eugenio Pizzimenti dimostra come nel 2010 sia arrivato dal finanziamento pubblico ben l’89,3 per cento delle risorse del Partito democratico, contro il 46,2 per cento nel 1994 dell’allora Pds. Ma le cose negli ultimi vent’anni non sono andate troppo diversamente anche per gli altri partiti.

Ragion per cui lo stesso Barca, intervistato da Lilli Gruber durante la trasmissione Otto e mezzo, ha spiegato che «i contributi degli iscritti, volontari, simpatizzanti o, in modo controllato, di soggetti esterni devono diventare la parte determinante della finanza di questo partito perché è l’unico modo per farlo tornare a essere il partito dei luoghi del territorio». Una posizione che non sembra in aperta contraddizione con quella del sindaco di Firenze Matteo Renzi, persuaso della necessità di abolire del tutto il finanziamento pubblico. Né con quella del premier Enrico Letta ed ex vicesegretario del partito, secondo cui ai partiti non dovrà andare più un solo euro che non sia deciso dai contribuenti. Tantomeno con la proposta di legge targata Pd che fa perno proprio sulle contribuzioni volontarie, rivitalizzando l’idea del credito d’imposta avanzata tempo fa da Pellegrino Capaldo. Visioni antitetiche rispetto a quella dell’ex tesoriere storico dei Ds, Ugo Sposetti, inamovibile dall’estremo opposto: per lui chiudendo il rubinetto dei denari statali si rischia addirittura di mettere in pericolo la democrazia.

Qualcuno apprenderà quindi non senza sorpresa che il blog di Barca si appresta a pubblicare una proposta degli stessi Ignazi e Pizzimenti, che va decisamente controcorrente rispetto al punto di vista di Renzi e Letta, rianimando il finanziamento pubblico diretto ai partiti, sia pure notevolmente ridotto rispetto ai livelli ancora esistenti. A dimostrazione di quanto a sinistra stia diventando complesso e travagliato il dibattito su un aspetto cruciale della crisi politica. E di come la partita, fra gli abolizionisti e chi invece è determinato a salvare il finanziamento pubblico, sia ancora tutta aperta.

La tesi di partenza è che non c’è un solo Paese europeo, con l’eccezione della Svizzera, in cui lo Stato non contribuisca finanziariamente alla vita delle formazioni politiche. Considerazione seguita dalla presa d’atto che «il finanziamento privato è un tema che in Italia non ha mai infiammato il dibattito, contrariamente a quanto accaduto in altri Paesi». Ignazi e Pizzimenti ricordano il fallimento della legge che nel 1997 aveva introdotto il contributo volontario del 4 per mille, argomentando che i meccanismi simili a questo, come gli incentivi fiscali previsti dal disegno di legge governativo, non sarebbero affatto convenienti per lo Stato. Tutte cose che per gli autori della proposta andrebbero dunque scartate, mentre si dovrebbero fissare limiti precisi alle donazioni private tanto dei singoli, quanto delle società e delle organizzazioni no profit: ponendo per esempio un tetto massimo di 25 mila euro annui. Limiti identici a quelli che si potrebbero prevedere per i contributi volontari dall’estero e per i prestiti, mentre le donazioni anonime andrebbero assolutamente vietate.

Ma a regole molto rigide dovrebbe essere sottoposto anche il finanziamento pubblico. Innanzitutto l’ammontare: un tetto massimo di 30 milioni per le elezioni di Camera, Senato, regionali ed europee. Nei cinque anni di un intero ciclo elettorale, dunque, nelle casse dei partiti non potrebbero arrivare dallo Stato più di 120 milioni, contro i 455 previsti dalla legge approvata a luglio del 2012. Quei soldi, «ripartiti in una quota fissa per ciascun partito e una quota variabile sulla base dei voti ottenuti», sarebbero erogati esclusivamente «per le spese effettivamente sostenute e debitamente documentate e rendicontate, una volta certificata e riconosciuta la loro ammissibilità da parte della Corte dei conti». Ai finanziamenti accederebbero soltanto i partiti muniti di uno statuto che garantisca la democrazia interna, depositato presso la Corte costituzionale incaricata dei controlli di legittimità, e che presentino i candidati in almeno tre quarti delle circoscrizioni elettorali ottenendo più dell’un per cento dei consensi.

Le risorse pubbliche a disposizione della politica, tuttavia, non si limiterebbero a questa forma rivista e corretta di rimborso elettorale, né a contribuzioni indirette come esistono un po’ in tutta Europa, quali l’accesso gratuito ai mezzi d’informazione, l’uso gratuito di spazi per le affissioni e di luoghi pubblici per le iniziative politiche, o sconti postali (che del resto già esistono e sono piuttosto generose). Ignazi e Pizzimenti propongono di confermare la misura introdotta dalla legge del luglio 2012, ma non prevista dal disegno di legge governativo, che stabilisce come in Germania un contributo statale per ogni euro di autofinanziamento, nel rapporto di uno a due. Il tutto, precisano gli autori, dev’essere sottoposto a controlli minuziosi e sanzioni severissime: «L’assenza sia di tetti di spesa vincolanti che di puntuali interventi di censura e repressione in caso di un loro superamento ha consentito l’ipertrofia delle spese incontrollate, inevitabilmente foriere di malversazioni e corruttele».

Sergio Rizzo


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