LA MALEDIZIONE DELLA CAPITALE DELL’AUTO

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Una città dove la metà dei parchi e giardini pubblici sono chiusi perché sono finiti da tempo i fondi per la manutenzione e la vigilanza. Quella che all’apice del suo trionfo industriale fu la capitale mondiale dell’automobile e divenne la quarta metropoli d’America con 1,8 milioni di abitanti, era ormai dimagrita a 700.000 abitanti, con vastissime zone ridotte allo stato di quartieri-fantasma, desertificati da uno spopolamento senza precedenti in tempi di pace. Ma la storia del declino angosciante di Detroit è il penultimo capitolo. Ciò che sconcerta di più, nelle vicende recenti che hanno preceduto questa bancarotta municipale (la più grossa negli annali degli Stati Uniti) è che il fallimento di Detroit coincide con un periodo di fantastica rinascita della sua industria
automobilistica.
General Motors, Ford e Chrysler vanno a gonfie vele, la loro spettacolare rimonta è uno dei fattori dell’attuale ripresa economica americana. Anche se ormai solo Chrysler ha una grossa fabbrica all’interno del perimetro urbano di Detroit (quella dove assembla la nuova Jeep Grand Cherokee), anche le altre due grandi case hanno ripreso ad assumere in questo bacino di manodopera. Colpisce la divaricazione estrema tra le due situazioni: da una parte un capitalismo privato che torna ad essere forte e opulento; dall’altro un’istituzione pubblica che va a picco, fino a dichiarare bancarotta.
È purtroppo la rappresentazione estrema di una contraddizione che l’intera America sta vivendo. L’economia reale è in crescita da quattro anni, e tuttavia lo Stato rimane “povero” in molte delle sue articolazioni ed enti locali; la qualità dei servizi pubblici langue; molte infrastrutture collettive continuano a soffrire per una penuria di investimenti. Questo accade perché
in un paese bicefalo — dove il presidente è democratico, ma la Camera ha una maggioranza di destra; il Senato è democratico ma la Corte suprema e il governo locale di molti Stati è in mano ai conservatori — l’ideologia liberista continua ad avere ampia presa. “Affamare la bestia” è l’antico slogan lanciato ai tempi di Ronald Reagan, la Bestia immonda per i conservatori è ovviamente lo Stato. Detroit è stata affamata fino in fondo, fino a farla morire d’inedia.
Due pesi, due misure, anche nei procedimenti di bancarotta. Quando erano General Motors e Chrysler sull’orlo del fallimento, scattò la procedura di bancarotta nota come Chapter 11, con l’obiettivo di risanare e rilanciare le due aziende. Furono chiesti e ottenuti sacrifici pesanti ai lavoratori (il dimezzamento dei salari per i nuovi assunti) ma al tempo stesso intervenne una generosa solidarietà nazionale sotto forma di decine di miliardi di intervento pubblico. Nella procedura fallimentare di Detroit ci sarà solo la prima parte: i sacrifici. Saranno licenziati molti dipendenti
pubblici, altri dovranno accettare tagli ai salari, anche i pensionati verranno messi a contribuzione: non esistono in America “diritti acquisiti” neppure nel pubblico impiego, di fronte alla bancarotta. Qualcuno loderà il modello iper-flessibile che consente all’America di uscire più rapidamente dalle crisi. Ma le ferite sociali saranno dolorose. Obama non potrà fare molto per aiutare Detroit, metropoli afroamericana all’80%, penalizzata dallo Stato del Michigan dove il governatore è repubblicano e il potere è in mano ai bianchi. L’agonia di Detroit accade a pochi giorni da una votazione della Camera che a livello nazionale ha decurtato i food stamp, o buoni-pasto per i poveri, uno degli strumenti di assistenza più importanti nella storia del Welfare State Usa; e mentre metà degli Stati (quelli governati dalla destra) stanno sabotando alacremente la riforma sanitaria di Obama, onde impedire che si realizzi la promessa di un’assistenza sanitaria allargata a tutti gli americani.


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