Il Cavaliere non cederà sul Viminale L’idea del rimpasto

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 Perché se così non fosse, Letta sa che Alfano (e come lui gli altri ministri del Pdl) non potrebbe restare a palazzo Chigi come «ostaggio» mentre il suo leader viene definitivamente condannato. D’altronde nemmeno il Pd reggerebbe, salterebbe tutto. Evocare un «tagliando» in autunno per il governo è quindi un modo di guardare al futuro, di esorcizzare ciò che sta per avvenire, se non fosse che i Democratici — puntando a rimescolare le cariche nell’esecutivo — vorrebbero inserirci anche il ministero dell’Interno.

Allora il quadro cambia, e s’intuisce perché il Cavaliere la viva come una manovra ostile, il tentativo di usare Alfano come un cavallo di troia per affondare Letta colpendo il Pdl, destabilizzando l’uomo di punta al governo per il centrodestra fino a delegittimarlo. Già il «caso kazako» ha duramente colpito il titolare del Viminale nel suo core-business, cioè l’affidabilità istituzionale, e non c’è dubbio che il lavorio ai fianchi sarebbe un modo per completare l’opera, per distruggere l’immagine del segretario del partito.

Ed è scontato che Berlusconi non accetterebbe mai la sua sostituzione agli Interni, e non per una mera concessione ad «Angelino», ma perché consapevole che — se cedesse — aprirebbe la strada alla capitolazione politica del Pdl. Sarebbe la resa, senza nemmeno l’onore delle armi. Perciò è uscito allo scoperto qualche giorno fa, a difesa di Alfano, perciò lo rifarà se e quando sarà il momento. Come dice il ministro dello Sviluppo Lupi, «questo governo si regge sull’unità e sulla capacità di fare. Chi — dopo le parole del capo dello Stato e dopo l’intervento al Senato del presidente del Consiglio — torna a mettere in discussione il ruolo di Alfano e le sue deleghe, significa che vuole logorare il governo e metterne in discussione l’esistenza».

Sembra un semplice altolà a Epifani e Bersani, nel gioco dialettico tra le due forze di maggioranza. È invece un «conflitto», così la pensa il ministro per le riforme Quagliariello, un conflitto culturale prima ancora che politico: «Perché, come hanno spiegato Napolitano e Letta, uno stato di diritto accetta e contempla anche la negazione della responsabilità politica. Il presidente della Repubblica e il premier hanno manifestato in questi giorni una visione non moralista e non giustizialista dello Stato, che invece si è palesata nell’Emiciclo del Senato, quando si è affermato il concetto della responsabilità oggettiva».

È chiaro il riferimento al capogruppo pd Zanda, che con il suo discorso ha dato una picconata al disegno del capo del governo, a cui Napolitano aveva dato forza. Letta che — per usare l’espressione di un ministro — «tiene il ghiaccio in tasca», ha atteso prima di protestare con il segretario del suo partito: la plastica differenza tra i complimenti ricevuti dal leader del Pdl e l’affondo di un dirigente democratico lo ha a dir poco irritato. Il fatto che Zanda — rivolgendosi ad Alfano e con il Cavaliere in Aula — abbia evocato una «committenza» nell’«affaire kazako», è stato vissuto dal corpo del centrodestra come la prova che una fazione del Pd sta lavorando per approfondire il solco nella maggioranza, e che — nonostante gli sforzi di Napolitano e Letta — sia quasi impossibile far vincere il progetto della «pacificazione».

È la tesi che di fatto Berlusconi ha sostenuto ieri dopo il voto, mentre — circondato da un drappello di senatori del Pdl — si complimentava con Alfano e gli diceva «ce l’abbiamo fatta anche stavolta»: «Purtroppo però — ha aggiunto cambiando espressione in viso — di lì sono sempre gli stessi. Inutile farsi illusioni, non cambieranno mai». Perché già ieri, nel giorno in cui la maggioranza ha votato contro la sfiducia al titolare dell’Interno, si è evidenziata la spaccatura tra i due partiti. È vero che le parole di Zanda e quelle della Puppato hanno fatto risaltare le contraddizioni in seno a un Pd ormai fuori controllo, ma proprio per questo è altrettanto chiaro che l’argine posto in questi giorni dal Quirinale e da palazzo Chigi così non potrà durare a lungo.

Nonostante le parole di Napolitano a difesa del ministro dell’Interno, nonostante il gesto di Letta, la sua presenza in Aula al Senato, il suo discorso, quel concetto espresso a difesa di Alfano «inoppugnabilmente estraneo» al «caso Ablyazov», il Pd continua a tenere il responsabile del Viminale nel mirino. Berlusconi a sua volta continuerà a tenere duro a difesa di «Angelino», quindi del Pdl. Anche questa in fondo è una manifestazione di ottimismo. Perché il 30 luglio il dibattito sul rimpasto potrebbe drammaticamente interrompersi.

Francesco Verderami


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