L’ultimo segreto di Moravia L’ispirazione viene dall’altrove

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Non ricordo che dicemmo, in quell’ora di confronto, sulla nostra città. Ricordo, invece, che uscendo sottobraccio su via Asiago, dissi a Moravia — che, gentilmente, mi aveva chiesto cosa stessi facendo — che ero a un punto morto del mio nuovo romanzo: nel senso, che non riuscivo ad andare né avanti né indietro. Sotto le folte sopracciglia, negli occhi dello scrittore anziano (come sempre gli accadeva quando si preparava a dare un suggerimento imprevedibile, o a esporre un’idea ugualmente imprevedibile) passò un lampo. «Vuole un consiglio?», mi disse. Risposi di sì. «Faccia un viaggio», disse, «se possibile esotico. Ma non nel senso dell’esotismo orientale; esotico, nel senso di scegliere un posto che non conosce affatto, un luogo straniero. E vedrà che, al ritorno, vedendolo con una mente nuova, farà subito ripartire il romanzo che ora sta fermo». Accettai il consiglio e potei constatare che aveva ragione.
Moravia dava questi suggerimenti agli amici, perché era stato, e continuava a essere anche negli ultimi anni della sua vita, un grande viaggiatore. Oriente, America, Medio Oriente, Russia, Africa, Europa: fin da giovanissimo aveva girato mezzo mondo; tornava nei posti che aveva visitato molti anni prima per vederne i cambiamenti; non finiva mai di trovare un pretesto per lasciare la sua casa in Lungotevere delle Vittorie, affacciata sulla pigra corrente giallastra del fiume, davanti ai palazzi in cui abitavano, o avevano abitato, gli inquieti borghesi dei suoi personaggi, e volare in Mongolia, o in un Paese africano.
Del viaggiatore come tale, aveva la curiosità; il desiderio di capire; la voglia di confrontare i pensieri che si portava da casa con le realtà nuove, o diverse da quelle che aveva immaginato, in cui sapeva immergersi; infine, una grande disponibilità alla fatica, e a sopportare tutti i tipi di disagi e a confrontarsi pazientemente — magari leggendo per dieci giorni romanzi francesi, in Africa, su un battello conradiano — con i momenti di noia che in un viaggio sono inevitabili. Del viaggiatore-narratore — come presto poterono apprezzare i lettori del «Corriere» — possedeva il dono di una scrittura molto «materica» (anche quando parlava di idee), sempre legata alla fisicità dei luoghi e delle persone; e il raro istinto che ti porta a non trascurare alcun dettaglio, bensì, al contrario, di scorgere, in un dettaglio apparentemente insignificante, il Tutto. Era anche un narratore orale formidabile, se ne aveva voglia. Un paio di settimane prima che morisse, a una cena, ci incantò con i suoi racconti — essendo di un umore smagliante.
Bompiani ha da poco ripubblicato in edizione economica, con la cura attenta di Luca Clerici, Un mese in Urss: il resoconto di un viaggio compiuto nella ex Unione Sovietica, dopo la morte di Stalin e il famoso discorso di Kruscev al XX Congresso in cui si denunciavano i crimini del dittatore, nel 1958. Ad Alain Elkann che, più di trent’anni dopo, nel bel libro scritto a quattro mani sulla sua vita (Vita di Moravia, Bompiani) gli chiedeva quali fossero state le sue impressioni sulla Russia, disse che il viaggio era stato «sterminato»; che aveva visto «una grande rivoluzione, ma al tempo stesso povertà e squallore»; che la sua guida, un ometto gentilissimo, era (come poi aveva scoperto) del Kgb; che la grande ambizione della Russia era quella di assomigliare un giorno all’America; e che, al ritorno, aveva scritto un libro intitolato Un mese in Urss, nel quale sostanzialmente diceva «che il governo sovietico aveva interesse a non promuovere l’industria leggera perché aveva bisogno dei risparmi dei lavoratori per poterli spendere per l’industria pesante e per gli armamenti».
La rilettura di Un mese in Urss (che Bompiani accoppia, in libreria, a un altro resoconto di viaggio, questo del 1967, La rivoluzione culturale in Cina), offre — oltre alle inevitabili considerazioni legate al trascorre del tempo e al mutamento della situazione politica e sociale di quel Paese «sterminato» — momenti di grande suggestione e intensità emotiva, frutto dell’attenzione, dello sguardo di Moravia, e delle sue doti di romanziere. Basterebbe citare la descrizione della miseria del palazzo di Leningrado in cui per qualche tempo visse Dostoevskij (amatissimo da Moravia) e poi della probabile casa della usuraia: veri e propri luoghi, «anonimi», della compressione psicologica, del furore ideologico, del rancore e della conseguente violenza. Oppure la descrizione, sulla Piazza Rossa, dell’attesa per visitare il mausoleo con le tombe di Lenin e di Stalin, in una giornata di pioggia, in mezzo a una folla spenta di impiegati e contadine con un pollo nella borsa (e poi quei volti marmorei e gialli, uno raffinato e orientale, l’altro grossolano, col naso carnoso e ricurvo, «la bocca insieme diffidente, brutale, scontenta e falsamente bonaria… la bocca di un uomo che brontola, che minaccia, che finge e che sospetta»). Oppure, le descrizioni così tattili degli ambienti chiusi (locande-alcova come quella in cui amoreggiavano Dimitri Karamazov e Gruscenka, stanze d’albergo, interni d’aeroporto: con la loro uniforme cupezza, i pesanti tendaggi, le tovagliette e i centrini, e l’uniforme pessimo gusto), e quelle delle sconfinate foreste, delle sconfinate steppe, dei panorami monotoni e vuoti custodi a tratti della desolazione, a tratti della malinconia, a tratti di un più misterioso sgomento.
È proprio un bel libro, che consiglio, Un mese in Urss. Il capitolo più bello, e più rivelatore, è il quinto, intitolato «Sterilità del dolore». È un capitolo nel quale si dicono svariate cose intelligenti e profonde in merito al dolore umano che riguarda tutti. Ma che fa capire a quale intensità sia arrivato il dolore in Unione Sovietica nel periodo che va dalla Rivoluzione alle due Guerre mondiali e al secondo dopoguerra; a quali quantità numeriche e fisiche (quante decine e decine di milioni di morti: prima per Hitler, dopo per Stalin) si appoggi questo dolore; come sia incommensurabile quel dolore (e incomprensibile a chi, nella medesima epoca viveva e certo anche soffriva, ma in altre regioni europee); come sia stato tragico vivere straziati da tutto quel buio, da quell’immenso lutto, fino a diventare, per necessità, sterili e indifferenti al dolore.


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