Arresto a Panama per l’uomo della Cia responsabile del sequestro di Abu Omar

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MILANO — Neanche il tempo di uscire dal disastro diplomatico del caso Kazakistan, e già per il governo italiano si profila un’altra «grana», stavolta con gli Stati Uniti da una parte e la comunità internazionale dall’altra. La condanna definitiva a 9 anni per sequestro di persona dovrebbe in teoria dettare la richiesta di estradizione ora che Bob Lady, ex console americano a Milano ma soprattutto capocentro della Cia nel capoluogo lombardo al momento del rapimento, il 17 febbraio 2003, dell’imam radicale Abu Omar, è stato fermato a Panama (una volta respinto dal Costa Rica) in esecuzione dell’italiano mandato di cattura internazionale inserito nel circuito Interpol. Ma è anche vero che, quando il 5 aprile il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ebbe a graziare a sorpresa il pure latitante colonnello dell’aviazione statunitense e capo nel 2003 della base militare Nato di Aviano, Joseph Romano (7 anni), tra le motivazioni addusse quella di volere «con un Paese amico ovviare a una situazione di evidente delicatezza, considerata dagli Stati Uniti senza precedenti per l’aspetto della condanna di un militare statunitense della Nato per fatti commessi sul territorio italiano, ritenuti legittimi in base ai provvedimenti adottati dopo gli attentati alle Torri Gemelle dall’allora presidente e dal Congresso americani». Argomento che sembrerebbe attagliarsi allora anche a Bob Lady, salvo la differenza che questi non fosse un militare della Nato, ma un diplomatico Usa.

Per avere un’idea della delicatezza del caso va peraltro ricordato che tutti e sei i ministri della Giustizia succedutisi con gli ultimi tre premier prima di Enrico Letta (Berlusconi, Prodi, Monti), e cioè Castelli, Mastella, Scotti, Alfano, Palma e Severino, hanno ritenuto di esercitare la propria legittima discrezionalità politica nel non dare corso alla diffusione in campo internazionale delle ricerche dei latitanti americani: a eccezione appunto che per i 9 anni di condanna di Lady, con la motivazione che l’altra ventina di agenti Cia sinora condannata definitivamente aveva incassato pene non superiori ai 4 anni e dunque presumibilmente non destinate a essere eseguite in carcere in Italia, mentre i 9 anni di Lady (anche ridotti in concreto a 6 dall’indulto che ne copre 3 anni) avrebbero potuto avere una reale prospettiva di esecuzione della pena in carcere.

Del tutto aperte, peraltro, sono ancora altre due partite parallele. Il processo di Cassazione ai tre vertici della Cia che operavano a Roma sotto vesti diplomatiche, Ralph Henry Russomando, Betnie Medero (6 anni in Appello) e l’allora capo del servizio segreto Usa in Italia, Jeff Castelli (7 anni in Appello). E il versante delle corresponsabilità italiane, sinora materializzatesi nelle condanne in Appello dell’allora capo del Sismi, Nicolò Pollari (10 anni), e del suo numero tre Marco Mancini (9 anni), invano appellatisi a un «segreto di Stato» confermato dai governi Prodi-Berlusconi-Monti non sul rapimento in sé, ma sui rapporti tra Sismi e Cia «ancorché in qualche modo collegati o collegabili con il sequestro». Il governo Monti ha sollevato davanti alla Corte costituzionale un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato: il quarto in questa vicenda, ma il più delicato sotto il profilo istituzionale, perché intentato stavolta contro la Cassazione per il modo in cui nel 2012 avrebbe (a detta di Palazzo Chigi) errato nell’interpretare e indicare ai giudici milanesi di merito il perimetro normativo del segreto di Stato delineato nel 2009 dalla Corte costituzionale.

Ulteriore complicazione nel caso di Lady sembra essere l’assenza di un trattato di estradizione tra Panama (il cui presidente Martinelli è stato lambito da una parte dell’inchiesta italiana su Walter Lavitola) e Italia (dove il ministro della Giustizia, Cancellieri, ieri ha chiesto subito due mesi di fermo temporaneo): in alcuni casi del passato è semmai accaduto che Panama espellesse l’arrestato in un altro Paese legato da trattati estradizionali con l’Italia.

Luigi Ferrarella


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