Iniziò con 5 milioni di vecchie lire. Quando disse: spegni i luci

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E che racconta tutto o quasi con un record: l’ordine di arresto di un’intera famiglia è da guinness dei primati dell’imprenditoria mondiale.

Per il «patriarca» Salvatore, fondatore dell’ex impero nato a Milano sul mattone 60 anni fa con 5 milioni di lire, i domiciliari (data l’età) eviteranno almeno il bis del ‘92, quando l’ingenere venuto da Paternò ha trascorso a San Vittore 112 giorni. Un lungo periodo ricordato per il suo silenzio, interrotto nel finale quando ai magistrati ha spiegato i rapporti con il Psi di Bettino Craxi, e per un episodio raccontato dal suo difensore: Ligresti era in cella con un detenuto che si è offerto di rifargli il letto. E lui ha risposto: «La ringrazio, l’ultima volta che l’ho fatto è stato a militare». Ma il ciclone Tangentopoli gli ha anche fatto guadagnare una indesiderata primizia: la condanna definitiva numero uno a oltre cinque anni per le tangenti pagate da Sai allo scopo di aggiudicarsi l’assicurazione dei dipendenti Eni. Una sentenza che gli è costata formalmente il posto, perché ha dovuto abbandonare le cariche nell’impero e «accontentarsi» di presidenze onorarie. Con il tempo le «corone» sono passate ai figli, Jonella, Giulia e Paolo, e ai manager fedelissimi come, in primo luogo, Fausto Marchionni.

La lunga pièce della «famiglia padrona» è cominciata negli anni Sessanta: «Una storia bellissima», l’ha definita Salvatore nell’unica intervista rilasciata nel 1986 ad Anna Di Martino de «Il Mondo». Che comincia con un sopralzo in via Savona: «Avevo saputo della possibilità di acquistare il diritto a costruirlo, ma ci volevano 15 milioni e io ne avevo cinque». Un prestito del Credito commerciale ha dunque dato il via all’ascesa che ha visto Ligresti conquistare in vent’anni i titoli di re del mattone di Milano e quello di Mister 5%. Quando nell’intervista racconta la sua storia, ha appena rilevato la Grassetto, possiede catene alberghiere, la Pozzi Ginori, tre cliniche, la compagnia Sai, rilevata da Raffaele Ursini (uno dei suoi maestri con Michelangelo Virgillito) e diventata la cassaforte di partecipazioni in Italcementi, Pirelli, Montedison, Cir e così via. Ligresti partecipa a un network di società e patti di sindacato costruito grazie anche a relazioni, una delle quali gli è particolarmente cara: quella con Enrico Cuccia. Grazie ai suoi legami con Craxi, Ligresti ha contribuito al via libera politico alla privatizzazione di Mediobanca.

Tangentopoli colpisce ma non affonda l’ingegnere. Che nell’estate 2001 mette a segno il grande colpo: Mediobanca gli vende Fondiaria, controllata da Montedison che in quel momento soffre l’assedio di Fiat-Edf, e lo finanzia per poterla «digerire». La fusione con la sua Sai è complessa ma alla fine riesce. Ligresti però non fa il salto che l’esser padrone della seconda compagnia italiana richiederebbe. Iniziano da allora la «eterodirezione» da parte della famiglia e «l’opera di spoglio» a favore di Salvatore & figli descritte nella relazione dal commissario ad acta per le azioni di responsabilità, nominato l’anno scorso dall’Isvap quando i buoi erano ormai scappati. Ad accorgersene subito è Vincenzo Maranghi, delfino di Cuccia, che in una lettera inviata a Ligresti all’indomani della fusione lo invita a un «cambio di passo», ad andare «oltre la gestione familiare». Secondo Maranghi i veri padroni di una compagnia sono gli assicurati e non rispettare questo principio può portare a «una crisi di fiducia della clientela, con conseguenze gravissime per Fondiaria-Sai». Ligresti però va avanti per la sua strada: i manager considerati vicini a Mediobanca (da Roberto Gavazzi a Enrico Bondi) devono via via lasciare il passo a figli e fedeli, e in particolare al fedelissimo Marchionni. Nel frattempo l’Antitrust impone alla banca d’affari di uscire da Fonsai e un anno dopo una delle riunioni decisive per l’uscita di Maranghi da Piazzetta Cuccia si tiene a San Siro, in casa Ligresti.

I manager obbediscono. E i «ragazzi», fino a poco tempo fa comproprietari con il padre dell’ex impero attraverso scatole dai nomi fantasiosi (come Canoe e Limbo), lasciano loro il mestiere e si occupano di altro con i soldi della società (Jonella di cavalli, Giulia di borsette e design). Tutti trattano Fonsai come un bancomat. E «l’opera di spoglio» si consuma tra folklore (le sponsorizzazioni al cavallo), consulenze superpagate (42 milioni a Salvatore dal 2003), compensi record (i figli dal 2005 portano a casa 70 milioni, Marchionni 25, Antonio Talarico 16) e soprattutto attraverso operazioni con parti correlate, cioè con società immobiliari dei Ligresti (alla fine fallite) che dal 2005 fruttano alla famiglia oltre 400 milioni netti. Le casse si svuotano, nei bilanci non si accantonano le riserve per risarcire i danni, e la società chiude i bilanci nel 2011-2012 con 2 miliardi di perdite. È il crollo. Alla fine, dopo il tentativo Groupama e una perlustrazione infruttuosa fra i maggiori gruppi assicurativi internazionali, Mediobanca favorisce l’arrivo di Unipol. Che, pur di fronte alle ultime resistenze e richieste rimaste inevase dei Ligresti (il controverso «papello» portato ad Alberto Nagel, amministratore delegato di Piazzetta Cuccia), acquista e ricapitalizza Fonsai e avvia la fusione. Addio elicotteri, auto di lusso, cavalli, ville, affari privati, vacanze in Sardegna tutto a carico dell’azienda. Lo spoglio è finito. E per la famiglia padrona si spengono le luci.

Sergio Bocconi


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