Le frasi fatte e i luoghi comuni quelle affinità elettive tra parole

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Un viaggio attraverso la chimica, la medicina, l’agricoltura, insomma le scienze più popolari nell’Ottocento; un viaggio appassionato, attraverso la lettura di centinaia di libri e l’approdo a tentativi concreti di sperimentazione. Questo il tema dell’ultimo grande romanzo, incompiuto, di Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet. Poteva essere un inno ai progressi delle scienze, ma Flaubert preferì invece presentarlo come la messa in scena di un fallimento generale, il trionfo della «bêtise», dell’imbecillità. Infatti i due protagonisti, oscuri impiegati, quando decidono di sperimentare tutte le scienze apprese sui libri, facendosi medici o chimici, vedono fallire le loro iniziative, in piccoli o grandi disastri. Non basta leggere tanti libri per diventare grandi scienziati.
Il romanzo pare dovesse terminare con l’immagine dei due compagni chini su un tavolino, a copiare, copiare, copiare tutto lo scibile e tutto quel che è stato scritto. Tra i materiali che i due si propongono di allestire c’è anche un Dizionario dei luoghi comuni, che Flaubert concepisce certo in chiave satirica, dato che segnala le banalità di cui i nostri discorsi, anche quelli pseudocolti, sono trapunti. Si tratta di luoghi comuni validi in qualunque occasione («L’acqua di Parigi fa venire le coliche»; i calli «indicano il mutare del tempo meglio dei barometri»; l’arte «porta dritti all’ospizio») oppure di citazioni «dotte», utili a nobilitare il linguaggio.
Indubbiamente in qualsiasi lingua ci sono delle specie di automatismi che fanno accompagnare a certi verbi certi sostantivi e a certi sostantivi certi attributi (l’ambizione è «folle»; i malviventi sono di solito «feroci»; la boscaglia è «cupa e impenetrabile»; ciò che viene «chiuso» lo è quasi sempre «ermeticamente»; «rigido» è accompagnato volentieri da «compassato»; l’ingiuria deve necessariamente «lavarsi nel sangue»; i muscoli degli uomini forti sono, è ovvio, «d’acciaio»). È come se certi gruppi di parole con significato autonomo (ossia certi sintagmi) fossero legati da una o più valenze (nel senso della chimica); noi nel parlare non ci riferiamo più a una singola parola, ma a qualche sintagma.
In italiano, per esempio, usiamo «tagliare» per l’erba, per la carne, per i capelli, mentre in altre lingue ci sono verbi appositi per tagliare l’erba e per tagliare il pane. Il parlante italiano noleggia una bicicletta o una barca, mentre per una camera o un appartamento ricorre al verbo «affittare». Ho tratto questi esempi dal Dizionario combinatorio italiano di Vincenzo Lo Cascio, noto linguista e lessicografo dell’Università di Amsterdam, che ha studiato i legami di seimila parole italiane (tremila nell’editio minor) con la loro costellazione di affinità. Una ricerca che potrebbe essere inesauribile, dato che alla fine le parole di una lingua sono collegate tutte l’una con l’altra: un’immensa rete. Ma le scelte operate da Lo Cascio sono generalmente quelle più giudiziose e utili.
Occorre in effetti spiegare come e perché, a penetrare nella foresta delle valenze, con vantaggio soprattutto per chi vuole apprendere una lingua, c’è un itinerario che svela i limiti già messi in rilievo da Flaubert, e un altro, più teorico, nel quale lo strumento ideato da Lo Cascio si rivela perfettamente adeguato. In sostanza, potremmo dire che Flaubert si esprime da scrittore, mentre coloro che fanno uso «normale» di una data lingua entrano per necessità nei suoi meccanismi e, istintivamente o no, ne usufruiscono.
La lingua si trasforma di continuo. Parole nuove vengono aggiunte. Altre cessano di essere usate. E la rete dei sintagmi continua a mutare. Una volta i maggiori contributori al mutamento erano gli scrittori. Ora ci sono ben altre forze verso l’innovazione, bella o brutta che sia: basta pensare alla pubblicità. Flaubert, scrittore e attento agli scrittori, rappresentava il bisogno di innovazione. Naturale la sua ripugnanza per parole ed espressioni che il parlante ripete meccanicamente, senza nemmeno pensare al loro significato. Lo scrittore è impegnato a rinnovare il linguaggio, a farci riscoprire, o scoprire, la nostra lingua, specie quando la usa con finalità letterarie.
Viceversa, per il parlante comune, le parole ed espressioni d’uso sono modi neutri di accennare a una realtà che per inerzia si designa sempre allo stesso modo, finché non se ne imponga uno nuovo. Il linguaggio della banalità, a veder bene, è stato in origine molto espressivo, e ricorreva volentieri alla metafora: «avere il dente avvelenato», «armato sino ai denti», «difendersi con le unghie e coi denti» ci riportano a sentimenti e atteggiamenti primitivi se non preistorici, mentre «correre ventre a terra» ci trasforma in cavalieri antichi. La reazione a una proposta sgradita può essere descritta come un complicato atto digestivo («difficile da digerire») e gli ostacoli di un interlocutore diventano una scena di carcere duro («essere una palla al piede») o una fase di palleggio («prendere la palla al balzo»). Possiamo persino autosotterrarci («sprofondare sotto terra dalla vergogna») o metterci in dialettica con la luna («pretendere la luna», «avere la luna storta»).
Il Dizionario di Lo Cascio registra un buon numero di questi sintagmi obbligati, da una parte aiutando lo studente di italiano a muoversi tra le valenze, diverse in ogni lingua, dall’altra mettendo alla prova il nostro gusto linguistico, e perciò stimolandoci a evitare le espressioni ormai banali, degne dell’ironia di Flaubert. Un aiuto, comunque, per muoverci nella rete di parole e forme in cui s’intrecciano i nostri discorsi.


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