Tolta la «razza», restano i razzisti

Loading

 «Dal negro puro si passa al sacatrà e dal sacatrà, a seconda della quantità di sangue bianco e nero, al griffe, dal griffe al marabou, al quarteron, al meticcio, fino al sang melé, composto da 126 parti di sangue bianco e 2 sole parti di sangue nero…». Studiando la popolazione di Santo Domingo, l’eccellentissimo Médéric Louis Élie Moreau de Saint-Méry, come racconta Massimiliano Santoro nel suo Il tempo dei padroni, era convinto di avere classificato tutte le sfumature razziali che dividono un bianco da un nero. Arrivando definire, udite udite, 64 diversi tipi di uomini di colore. E mai avrebbe immaginato, dall’alto del suo scranno di pseudo «scienziato» illuminista, che il Parlamento francese sarebbe arrivato un giorno a cancellare dalla Costituzione perfino la parola razza.
In realtà, nella Carta del 1946, era citata solo di striscio e in modo, diremmo oggi, politicamente corretto: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale. Garantisce l’eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione d’origine, razza o religione». Una formulazione simile al nostro articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione…».
Il solo fatto di nominare quella parola «immonda», però, secondo Jean-Luc Melenchon del Front de gauche che è riuscito a tirarsi dietro i socialisti e buona parte del Parlamento, significa riconoscerne l’esistenza. Meglio abolirla. E aggiungere nella Carta che «la Repubblica combatte il razzismo, l’antisemitismo e la xenofobia» e «non riconosce l’esistenza di alcuna presunta razza».
Evviva, hanno esultato tanti. E giù citazioni di Albert Einstein, che sul visto di ingresso in America (ma la cosa è controversa, stando ai moduli di Ellis Island del ’21) alla voce «razza» avrebbe scritto «umana».
La questione però, come ha scritto Catherine Vincent su «Le Monde», divide i militanti antirazzisti, gli storici e i sociologi. E se l’antropologa Evelyne Heyer teorizza che la razza «è un concetto di cui non c’è alcun bisogno», lo storico (di colore) Pap Ndiaye, specialista nella storia dei neri d’America, sostiene di non vedere la ragione di questo passo perché «la soppressione della parola razza non sopprimerà affatto il razzismo». Anzi, secondo il sociologo Eric Fassin «l’eufemismo potrebbe semplicemente oscurare il problema». Rendendolo in qualche modo perfino più insidioso.
Che le differenze tra la più nera dei Dessanatech e la più bionda delle svedesi siano minime è noto da un pezzo. Al punto che già il 28 luglio 1939, ricevendo gli alunni del Pontificio collegio di Propaganda Fide, papa Pio XI spiegò in polemica col nazismo e col fascismo che «il genere umano, tutto il genere umano, è una sola, grande, universale razza umana». Una tesi dimostrata anche geneticamente. A dispetto di Moreau de Saint-Méry e dei suoi (più ignoranti) eredi di oggi, ad esempio, i geni che determinano il colore della pelle, spiegano i genetisti, sono una cinquantina su circa trentamila. Che basti eliminare una parola dal vocabolario per eliminare il problema, però, è tutto da dimostrare. Anzi, l’operazione a volte è solo un alibi delle cattive coscienze.
La legge 4/1974 dice testuale che «nelle certificazioni, comunicazioni, carteggi, relazioni ed ogni altro atto, redatti per qualsiasi uso dagli uffici dello Stato, enti ed istituti pubblici, è fatto divieto di usare il termine lebbra, lebbroso, lebbrosario e qualsiasi altro che dalla parola lebbra derivi»: va usata la parola «hanseniano». Ma la lebbra non è stata abolita e non uno di quei burocrati che fissarono quella regola avrebbe passato decenni in un lebbrosario come madre Teresa che chiamava lebbrosi i lebbrosi. C’è più pietà e rispetto nelle parabole evangeliche di Gesù che in Galilea benedice «zoppi, storpi, ciechi, sordi» o negli emendamenti che tagliano i fondi all’assistenza ma chiamano ipocritamente le vittime «diversamente abili», «non vedenti» o «audiolesi»?
Le parole, in sé, significano poco o niente. Conta come vengono usate. Cosa c’è dietro. Basti pensare alla battaglia di intellettuali rom come Santino Spinelli, due lauree, scrittore, musicista col nome d’arte di Alexian, docente universitario, che rifiutano a brutto muso il termine «zingaro» pretendendo per il loro popolo la parola «rom» o in subordine «nomade». Legittimo. Certi manifesti razzisti di Forza Nuova, però, indifferenti alle statistiche sui profili degli stupratori, sbattono in primo piano una donna violentata con lo slogan: «Se capitasse a tua madre, tua moglie o tua figlia? Chiudere i campi nomadi/Espellere i rom!». Viceversa, alcune delle cose più belle e rispettose le ha scritte ad esempio Orio Vergani («I nebbiosi inverni della Padania hanno fatto sempre amare i bruni zingari i cui visi sembrano bruciati da un sole antichissimo…») chiamandoli con quel nome rifiutato.
E se quella parola odiata è stata usata come un insulto belluino da sindaci come Giancarlo Gentilini («Ho distrutto due campi di zingari a Trevisooo! Non ci sono più zingari, a Trevisooo! Voglio eliminare i bambini dei zingari che vanno a rubare agli anzianiii!»), la stessa ha assunto tutto un altro significato, pieno di rispetto e amicizia, in bocca a Giovanni Paolo II. Il quale beatificò nel 1997 Ceferino Giménez Malla, «zingaro e cristiano eroico», fucilato nel 1936 nella guerra civile spagnola e chiese perdono per i peccati della Chiesa contro «i fratelli zingari» e avviò gli «Orientamenti per una pastorale degli zingari» che poi venne portata a compimento sotto Benedetto XVI. Dove si raccomanda ai cristiani rispetto per questa popolazione «da secoli presente in terra tradizionalmente cristiana ma spesso emarginata, segnata dalla sofferenza, dalla discriminazione e spesso anche dalla persecuzione».
E allora come la mettiamo? Ben venga, se serve a ricordare quanto sia centrale il tema, l’iniziativa francese. Ma il cammino per superare il razzismo deve andare oltre le parole. Ed è ancora lungo lungo…


Related Articles

Gaza. La Germania all’Aja per complicità nel genocidio, rischia anche l’Italia

Loading

Intervista alla giurista Alessandra Annoni: «Analizzando i singoli crimini israeliani, si perde il quadro. Se li mettiamo insieme e li uniamo alle dichiarazioni ufficiali, emerge quello che gli esperti chiamano un caso di genocidio da manuale»

Free Tibet: la giornata mondiale, una ragazza si dà  fuoco, sono 32 in un mese

Loading

Tibet Immolazioni Fuoco 

Il suo nome era Bhenchen Kyi. Una studentessa che, secondo fonti della dissidenza tibetana in India, si è data fuoco intorno alle 20 di ieri sera, urlando slogan contro l’occupazione cinese del Tibet e chiedendo il ritorno del Dalai Lama. La ragazza è morta poco dopo a causa delle ustioni riportate. Circa duemila tibetani si sono raccolti nella zona dell’auto-immolazione per impedire alle autorità  cinesi di prendere il corpo della ragazza, che è stato poi cremato nella notte.

Delitto, 10 mila cinesi in corteo

Loading

Il console: autodifesa. I killer non potevano essere espulsi

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment