L’AZIONE PARALLELA
È nell’indole del leader, che vive di semplificazioni populiste e di pulsioni cesariste. Una miscela esplosiva, e tecnicamente eversiva, che spinge naturalmente il Cavaliere a concepire le regole della democrazia come una camicia di forza, e dunque a volerne ostinatamente fuggire. Sta accadendo anche oggi. Esasperato dai processi ai quali si sottrae scientificamente dai tempi della sua discesa in campo, ma rassegnato a sostenere una maggioranza di Larghe Intese che gli consente di restare comunque seduto al tavolo del potere, Berlusconi si muove nello schema dell’Uomo senza qualità di Musil.
Porta avanti l’Azione Parallela: da una parte conferma la lealtà al governo. Ma dall’altra parte conferma la volontà di far saltare il tavolo della giustizia. Con una mano fa finta di sorreggere Enrico Letta, con l’altra mano punta la pistola alla tempia dei magistrati, e al tempo stesso spinge le sue falangi macedoni ad avvelenare i pozzi, a seminare di mine innescate il campo della battaglia parlamentare, a sfruttare il primo treno che passa per veicolarci sopra qualche nuovo salvacondotto, o qualche altra legge ad personam. Prima l’emendamento fantasma che corregge le norme sull’interdizione dai pubblici uffici (pena accessoria che gli è stata inflitta per cinque anni nel processo di primo e secondo grado sui diritti tv Mediaset e in perpetuo nel processo di primo grado su Ruby). Poi l’ipotesi di amnistia, da far correre sui binari del decreto svuota-carceri. Infine il blitz sul disegno di legge per le riforme costituzionali, che un codicillo del senatore Donato Bruno apre ora anche alla riscrittura del Titolo Quarto della Costituzione dedicato proprio alla magistratura e all’ordinamento giurisdizionale.
Di fronte a questa improvvisa e palese violazione del fragile patto costitutivo sul quale si fondano le Larghe Intese (questo «governo di servizio» non si occuperà per ovvi motivi di riforma della giustizia) qualcuno nel Pd aveva parlato di un «atto di pirateria ». Il Pdl ha replicato con sdegno, per bocca del suo ministro delle Riforme Quagliariello, respingendo l’accusa e denunciandone l’evidente “strumentalità”. Adesso, a smentire le colombe e a rafforzare i falchi, arriva il Cavaliere in persona. L’intervista al Tg1 sancisce ciò che era già chiaro fin dall’inizio. Quarantott’ore dopo la condanna a sette anni per prostituzione minorile e concussione nella farsa sulla “nipote di Mubarak”, ventiquattr’ore dopo i posticci esercizi di moderazione svolti durante il colloquio con il presidente della Repubblica, e in pendenza della decisione della Cassazione sul maxi-risarcimento dovuto da Fininvest a Cir per la corruzione nel Lodo Mondadori, Berlusconi ribadisce che «se c’è un settore che ha bisogno di una riforma questo è proprio la giustizia». E dunque conferma le peggiori intenzioni che stanno dietro l’offensiva del suo gruppo parlamentare al Senato.
I magistrati, inquirenti e requirenti, devono sapere che quella che il Cavaliere chiama e fa chiamare dalle sue televisioni serventi la «guerra dei vent’anni», lui continuerà a combatterla con tutti i mezzi. E gli alleati riluttanti della strana maggioranza devono sapere che il suo personale plotone d’esecuzione è sempre lì, nelle aule parlamentari, pronto a sparare fuoco amico sul governo e fuoco nemico sulle toghe rosse. La minaccia è puramente virtuale sul piano dei processi: il nuovo corso della “pacificazione”, che secondo lo schema berlusconiano doveva propiziare la nascita e consolidare la crescita di una Grosse Koalition all’italiana, sembra già svanito. Ma la minaccia è reale sul piano politico: resta difficile immaginare un Cavaliere condannato in via definitiva che diligentemente “si consegna agli arresti domiciliari”, mentre la nave del governo di Larghe Intese continua serena la sua navigazione. E c’è un’aggravante: la solita, quando si tratta di ricostruire i nudi fatti che hanno portato l’imputato di Arcore a subire un processo o una condanna. La menzogna come arma di difesa e di attacco.
Distorcendo ancora una volta le regole, l’ex premier parla al Tg1 mentre i giudici della Cassazione stanno ancora decidendo e scrivendo il dispositivo della sentenza sulla causa civile di risarcimento per il Lodo Mondadori. Si dichiara «vittima» di una decisione che, ai tempi della spartizione della casa editrice con il gruppo De Benedetti, lo vide invece nei panni del «carnefice ». Un ruolo che sta scritto nero su bianco su una sentenza di condanna penale già passata in giudicato, emessa dalla Corte d’appello di Milano il 23 febbraio 2007. In quella pronuncia si certifica che nel 1991 la Mondadori fu sottratta alla Cir dal gruppo Fininvest grazie a una sentenza «comprata » da Berlusconi ed emessa dal giudice Vittorio Metta, che per questo fu ricompensato con una tangente di 400 milioni di lire. Dalla condanna per corruzione, che sei anni fa ha colpito i suoi “sensali” Previti, Pacifico e Acampora, Berlusconi si è salvato solo grazie alla prescrizione. Ma di tutto questo, sulla rete ammiraglia della Rai, lo Statista non parla. Fa la parte del perseguitato (che non è) e non quella dell’imputato (che invece continua ad essere). La rituale contraffazione dei fatti, riscritti e raccontati secondo convenienza personale e impudenza politica.
Può sembrare un paradosso, ma questo ennesimo e disperato colpo di teatro del Cavaliere avviene proprio nello stesso giorno in cui, sul caso Ruby, si verifica un clamoroso episodio di disvelamento per il quale dobbiamo ringraziare niente meno che Lele Mora. È lui che, suo malgrado, si assume l’onere di dare un nome alle cose. Di squarciare il velo della propaganda conformista e manipolatoria, che nasconde una macchina costruita per produrre senso comune e trasformarlo in consenso politico. È sorprendente, e al tempo stesso anche inquietante, che a compiere un’operazione di verità così “scandalosa” rispetto ai canoni omertosi dell’ortodossia berlusconiana sia stato uno degli “ingranaggi” di quella stessa macchina. Ma anche questo, infine, è accaduto. Il fornitore seriale e «assaggiatore » ufficiale di olgettine nelle cene eleganti confessa, in un’aula di tribunale, che quelle serate ad Arcore sono state un caso di «abuso di potere, dismisura, degrado». Queste tre parole, testuali, le aveva scritte Giuseppe D’Avanzo su Repubblica (e le ha ricordate Ezio Mauro nel suo editoriale di martedì scorso), per spiegare in splendida solitudine quello che era chiaro e pacifico fin da allora. Che l’inchiesta sul Ruby-gate non era un odioso attacco alla privacy né un morboso tentativo di spiare l’allora presidente del Consiglio dal buco della serratura della sua camera da letto. Era invece un gigantesco scandalo politico, caricato di una colossale dimensione pubblica. E a nasconderlo, con una dose insopportabile di ipocrisia, poteva provare solo chi si ostinava (e si ostina tuttora) a presentarlo invece come la fatwa di una teocrazia che pretende di giudicare un peccato e di condannare non un reato, ma «uno stile di vita».
Ora, dalle parole di Mora, per una volta sincere nonostante le mezze ritrattazioni successive, abbiamo la conferma di quello che non abbiamo mai dubitato: e cioè che aveva ragione D’Avanzo. Abuso di potere, dismisura, degrado. Non c’è altro da dire, di fronte a una penosa storia di privatizzazione delle funzioni pubbliche, o di pubblicizzazione dei vizi privati, che ha esposto un capo di governo dell’Occidente al ricatto sistematico di un drappello di faccendieri e di un manipolo di escort. Ci vogliono la responsabilità politica e la tempra etica di un Lele Mora, a riconoscere almeno una volta, e a viso aperto, questa disarmante banalità del male?
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