I Taliban chiedono lo scambio di prigionieri “Un americano per cinque di Guantanamo”

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La bandiera, nonostante le assicurazioni del governo di , è ancora lì. Solo un po’ più bassa, solo un po’ più nascosta ma sempre lì, come racconta il
New York Times.
È il vessillo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, il nome taliban del paese. Ed è la pietra, simbolica ma non troppo, della discordia che ha interrotto sul nascere i colloqui, in teoria, di pace. Dovevano iniziare ieri, ma come previsto non è accaduto niente. Le delegazioni non si sono incontrate e il capo di quella americane James Dobbins è segnalato ancora a Washington. Il dipartimento di Stato Usa sceglie una strada soft: «L’incontro non era mai stato annunciato ufficialmente, dunque non è mai saltato. Ci sarà nei prossimi giorni». La diplomazia americana cerca di convincere il presidente Amid Karzai che questa è la strada da seguire, che non ci sono alternative. Uomini della Casa Bianca ripetono: «Non riconosciamo quel nome. Quell’ufficio non è l’ambasciata ». Ma lui, al momento, rimane sulle posizioni di mercoledì quando in due telefonate a Kerry aveva manifestato tutto il suo furore per «le azioni sconsiderate dei Taliban».
Si muovono le pedine per sbloccare l’impasse. Parlando con l’agenzia Ap, il portavoce degli ex studenti del Corano, Sohail Shaheen, mette sul piatto uno scambio di prigionieri: da una parte il sergente americano Bowe Bergdahl, sequestrato nel 2009, e dall’alta cinque dei loro uomini nel carcere di Guantanamo. Anche il Pakistan, che segue con interesse la situazione, si dichiara disponibile ad una mossa simile. Ma Karzai ha in mano una carta decisiva: la trattativa chiave con gli Stati Uniti per decidere la permanenza di truppe Usa in Afghanistan. Ieri ne hanno parlato ad Herat i ministri della Difesa italiano e tedesco Mario Mauro e Thomas De Maiziere, che dovrebbero lasciare dai 500 agli 800 soldati (con qualche polemica in vista a Roma per l’opposizione di Sel). Ma come sottolinea Berlino: «Serve prima un accordo tra Usa e Kabul, senza ogni discorso è prematuro».


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