PICCOLI BORGHESI SENZA DESTINI

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La letteratura rivendica per sé uno spazio altro dall’universo pratico in cui nasce. Io ci ho provato e non ci sono riuscito, poi ho pensato che non era giusto. La letteratura vive in questo mondo, e qui deve cercarsi la sua gloria falsa o vera, misurare i suoi scarti, dispensare le sue sorprese.
Scarti e sorprese sono grandi, in questo come nei suoi libri narrativi precedenti, se si compara all’intellettuale lo scrittore d’invenzione. Dove sono finiti i due grandi temi di Asor Rosa, quelli che hanno informato la sua attività cinquantennale: la Rivoluzione e il Governo? Temi antitetici, temi correlati, temi che si attraggono e si respingono tra loro con la forza degli ossimori, e di cui in Racconti dell’errore non c’è quasi traccia. Vite comuni, invece, di individui in ombra, marginali, puntigliosamente mediocri (un lemma che ricorre spesso, e così i suoi sinonimi), minati tutti da una crepa interna di ordine biologico e non storico, impossibilitati, anzi, anche solo a immaginare che esista quel palcoscenico della grande Storia su cui il loro autore ha recitato e continua a recitare da protagonista. Piccolissimi borghesi, commessi, ragionieri, al massimo professori di liceo, pensionati appena si può. Gente che ignora, che non viaggia, non partecipa, non si spende nemmeno nella vita privata (tutti celibi e senza figli, per esempio, a parte forse il protagonista dell’ultimo testo, il Vecchio, probabile alter ego dello scrittore). Ossessionati dalla morte e dalla vecchiaia — chi si sente addosso la prima fin da ragazzo pur morendo anziano, come Aristide Galeoto, o la finge come Giovanni Sollicciano; e chi la rimuove, la seconda, sino a quando non gli piomba addosso come Antonio Feliciano detto Tonino, « persona più normale e prevedibile del mondo». Autistici nel sesso, tramortiti dall’amore quando arriva, sopraffatti da rivelazioni sempre tardive e quindi inservibili sul significato della loro vita, se non della vita in generale. Vita che è in primo luogo corpo destinato a sparire, macelleria somatica priva di forma e compiutezza che non sia quella arrecata dalla morte: semplice zoe, come dicevano gli antichi greci. Tutto il contrario della vita come bios, figura, scelta, destino, di cui è sempre stato alfiere un veterano delle battaglie novecentesche quale Asor Rosa.
Palinodia, pentimento, sconfessione? Non direi. Piuttosto l’emergere del lato in ombra, della carne senziente e sofferente che la politica come forma di vita superiore cara ad Asor Rosa ha sempre considerato materiale da costruzione, quantità trascurabile se non si invera e trasfigura in ciò che Franco Fortini chiamava i «destini generali». Non è un caso se l’ultimo racconto, il più felice, «Pepe e il Vecchio», ha come narratore un cane, e si interroga su una possibile, lirica e utopica, anche se pur sempre materialistica, riconciliazione tra l’umano e l’animale, quasi un Volponi senza più indignazione né furore. Il tono, in questo come negli altri racconti, è del resto decisivo. Condiscendente, ironico anche se non giudicante, perfino affettuoso e compartecipe, ma elegiaco mai.
Asor Rosa non si è convertito al dio delle piccole cose, nemmeno se redente in quelle «occasioni» care al Montale che prese di mira in un celebre epigramma la sua dedizione alla Storia. Le grandi non sono andate come avrebbe voluto. Ma non per questo le piccole cambiano di scala, né non valgono a giustificarsi da sole per il puro fatto di esistere: la morte che le tallona è quella clinica di Cechov, non quella epica di Tolstoj.
Che resti della vita senza Storia è quanto mostrano i Racconti dell’errore, epifanie profane in supplenza di un compimento che non ci sarà, e a cui pure non si può rinunciare, pena l’accartocciarsi, la reclusione, la disillusione anticipata nella speranza vana di eludere una delusione che comunque, leopardianamente, arriverà. A meno che non riesca l’esperimento di Pepe e il Vecchio; dove però è il cane che parla, e cosa pensi l’uomo non si sa.


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