L’Europa e il dilemma di Ankara i rischi di un addio all’eterna candidata
BRUXELLES — «Non riconosco questo parlamento dell’Unione europea»: il premier turco Erdogan dà uno schiaffo agli eurodeputati, che avevano criticato la sua repressione delle proteste di piazza. Con il montare delle ostilità tra la società civile turca e il governo democraticamente eletto, sale anche la tensione tra la Turchia e l’Europa. Per ora la versione ufficiale di Bruxelles è che i recenti avvenimenti di Istanbul non influiscono direttamente sulle prospettive di adesione del Paese all’Unione europea. Ma intanto i negoziati languono ed è evidente che, se la situazione dovesse continuare a deteriorarsi, e se le critiche reciproche dei governi europei a Erdogan e di Erdogan alle istituzioni europee continuassero a salire di tono, la prospettiva di una adesione della Turchia alla Ue finirebbe definitivamente in un cassetto.
Ma per l’Europa non si tratta di una decisione facile. Vista da Bruxelles, la Turchia rappresenta un dilemma che dura da 25 anni. L’esplodere della protesta di piazza Taksim e la durissima repressione di un governo che diventa sempre più autoritario e intrusivo drammatizzano questo dilemma, ma non ne modificano la natura.
Ankara ha presentato la propria candidatura per aderire all’Ue 25 anni fa: nel 1987. Nel 1999 la candidatura è stata accettata dal Consiglio europeo, ma i veri e propri negoziati di adesione sono cominciati solo nel 2005 e da allora proseguono a rilento, tra difficoltà reali e ostacoli pretestuosi creati per frenare la marcia di avvicinamento del colosso islamico all’Ue. Da sempre, quando l’Europa non sa decidere che cosa fare, prende tempo. E nei confronti di Ankara l’indecisione è massima.
Da una parte, il partito favorevole all’adesione della Turchia sostiene, non senza ragione, che la sola prospettiva dell’integrazione europea può garantire una evoluzione laica e democratica di questo gigante che si trova comunque alle porte di casa. Come è avvenuto per i Paesi dell’Est dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il faro dell’Europa può catalizzare le forze più positive della società turca e consolidare il percorso del Paese verso un modello di moderna democrazia occidentale.
Dall’altra parte, quanti sono ostili ad estendere le frontiere dell’Unione fino al cuore dell’Anatolia sostengono che la Turchia, con i suoi quasi ottanta milioni di abitanti di fede islamica, è incompatibile con il progetto europeo. Che il Paese non è pronto ad abbracciare fino in fondo le regole
di una democrazia complessa come quella condivisa dagli altri stati europei. Che il suo futuro si gioca nella partita tra islamisti, sia pur moderati, e casta militare: due forze comunque incompatibili con il progetto europeo. Che gli interessi geopolitici di Ankara finirebbero per risucchiare l’Europa nel gorgo mediorientale invece che garantire l’europeizzazione della Turchia.
Oggi quanto sta accadendo a Istanbul sembrerebbe dare ragione a questa tesi. Ma potrebbe essere vero anche l’opposto: che proprio la riluttanza di Bruxelles ad accogliere la Turchia abbia determinato l’involuzione autoritaria e integralista del governo Erdogan e il suo distacco dal progetto europeo. «Le due Turchie si confrontano in piazza e questa è una perdita anche per l’Europa che ha le sue responsabilità e che sbaglierà anche questa volta: invece che aprire capitoli e costringere Erdogan al tavolo del negoziato tenderà a chiudere quelle porte», dice il ministro degli esteri italiano Emma Bonino.
Se è vero che i manifestanti di piazza Taksim sognano una Turchia laica ed europea, l’Europa ancora una volta non sa come aiutarli. Fare finta di niente potrebbe convincere Erdogan di avere avuto ragione e che il suo modello di democrazia muscolare e repressiva possa trovare posto in Europa. Sbattere la porta in faccia alla Turchia finirebbe per far sentire i manifestanti ancora più soli e potrebbe spingere il governo ad una repressione ancora più dura. Il dilemma turco è ancora tutto da districare.
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