Armi ai ribelli e destino di Assad ecco la nuova Guerra fredda che divide America e Russia

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I NOMI dei fiumi sono mutati: non più l’Elba ma l’Eufrate. I dati geopolitici non sono gli stessi. Nel nuovo contesto alla lotta per il potere si aggiunge la teologia. Maometto risulta ravvivato, di fronte al concluso tramonto di Marx, quello volgare applicato nel socialismo reale. Il Capitale è stato riposto in biblioteca, mentre il Corano è più che mai spalancato. Nel conflitto mediorientale, in cui sono implicati America e Russia, ci si si riallaccia infatti al Settimo secolo, alla morte del Profeta, quando i musulmani si divisero sulla successione, ed ebbe inizio la tenzone tra sunniti e sciiti. La rivalità millenaria tra i due Islam coinvolge adesso Mosca e Washington (con alle spalle un’Europa divisa sulla questione). Il Cremlino sostiene il campo sciita, la Casa Bianca quello sunnita. Come si è arrivati a questo ?
Barack Obama e Vladimir Putin si incontrano in queste ore con la mappa della guerra siriana sul tavolo. E’ là che si è riaccesa la guerra fredda. Tutto è cominciato con una manifestazione il 15 marzo 2011, sulla scia delle rivoluzioni arabe contro i raìs, e molto presto si è arrivati a una ribellione di massa. Gli scontri con i soldati di Bashar el-Assad si sono rapidamente trasformati in un conflitto civile tra comunità. Il nucleo forte del potere, formato dalla setta sciita degli alawiti, ha avuto l’appoggio dell’Iran sciita e dei suoi alleati libanesi, gli Hezbollah; mentre gli insorti, per lo più sunniti, hanno avuto quello immediato dell’Arabia Saudita.
Vecchia alleata della Siria, dove ha il suo solo porto sul Mediterraneo, la Russia ha difeso il regime di Damasco. Mentre gli Stati Uniti, nemici dell’Iran teocratico, e legati da un’anti amicizia con la non meno teocratica Arabia Saudita, hanno optato per i ribelli, senza compromettersi troppo. Gli schieramenti a due anni e mezzo di distanza dalle prime manifestazioni, e dopo centomila morti e milioni di profughi dispersi nella regione, sono questi: da un lato, con varia implicazione, l’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia, la Giordania, da qualche ora l’Egitto (che ha deciso di rompere i rapporti con Damasco), e naturalmente gli Stati Uniti, finora prudenti e perplessi; dall’altro l’Iran, generoso in armi e uomini (oltre ai suoi alleati Hezbollah libanesi già sul terreno, sarebbero in partenza da Teheran diretti in Siria quattromila “Guardiani della rivoluzione”), e la Russia che rifornisce di materiale bellico l’esercito siriano. E lo porta con un ponte aereo sull’Iraq, governato dagli sciiti e quindi compiacente con Teheran e con Damasco, malgrado la presenza a Bagdad della più grande ambasciata americana.
Quattro giorni prima di incontrare il presidente russo nell’Irlanda del Nord, Barack Obama ha compiuto un passo che implica un impegno americano più importante nel conflitto siriano. Dopo giorni di riunioni del Consiglio di Sicurezza Nazionale e un lungo e tormentato dibattito interno all’amministrazione, la Casa Bianca ha annunciato, giovedì 13 giugno, che la “linea rossa” fissata da Barack Obama era stata superata da Bashar el-Assad. Avendo usato a più riprese contro l’opposizione armi chimiche, in particolare il gas sarin, il presidente siriano ha costretto il presidente americano a cambiare «il suo calcolo», come si era impegnato a fare se ciò fosse accaduto. Quindi gli Stati Uniti hanno reso pubblica la decisione di fornire per la prima volta un aiuto militare diretto al Consiglio militare supremo dei ribelli. Il portavoce della Casa Bianca non ha specificato di che tipo sarà l’aiuto, non ha parlato di armi, è rimasto sul generico, ma secondo la stampa americana si tratta di armi leggere. Sarebbe del resto già in funzione una linea di rifornimento agli insorti, a quelli ritenuti affidabili, non agli estremisti musulmani.
Nelle ultime ore, a ridosso del G8 nell’Irlanda del Nord, gli americani hanno deciso di trattenere nella Giordania confinante con la Siria gli aerei F-16 e i missili difensivi Patriot impegnati nelle manovre appena concluse in quel paese. Dove i militari americani addestrano già da tempo unità di ribelli siriani. Gli F-16 a pochi minuti di volo dai luoghi in cui è in corso la guerra civile costituiscono un serio avvertimento, in queste ore cruciali perché mentre Barack Obama sta per incontrare Vladimir Putin si parla con insistenza di un’imminente offensiva dell’esercito lealista ad Aleppo. Nella seconda città siriana, dove si combatte da più di un anno, i ribelli controllano i quartieri periferici, a ridosso delle zone storiche, ma sono da alcune settimane in difficoltà, stentano a mantenere le loro posizioni. Se dovessero ritirarsi, come è accaduto ai loro compagni di Qusayr, al confine col Libano, dove sono intervenuti gli Hezbollah a rinforzo dei soldati di Assad, la guerra civile conoscerebbe una svolta importante, in favore di Damasco. I protettori russi sarebbero avvantaggiati al tavolo dei negoziati, di fronte agli americani.
I russi hanno reagito con forza alla denuncia americana del gas sarin, paragonandola a quella delle armi di distruzione di massa (poi rivelatesi inesistenti) servita come pretesto al presidente Bush nel 2003 per giustificare l’invasione dell’Iraq. E hanno avvertito che l’impiego degli F16 e dei missili Patriot rimasti in Giordania per creare una no-fly zone, destinata a proteggere i ribelli dalle incursioni aeree, sarebbe contrario alla legge internazionale. Non hanno inoltre escluso una futura fornitura di missili S-300, richiesti da Bashar el-Assad per rendere difficile l’eventuale
creazione della zona di esclusione area non ancora decisa dagli americani. Almeno, per il momento.
Il recupero da parte dell’esercito di Assad, il 5 giugno, della città di Qusayr, al confine libanese, ha affrettato i tempi. L’amministrazione americana si è accorta che dopo avere chiesto con insistenza la destituzione di Bashar el-Assad stava correndo il rischio di vederlo rafforzato, e quindi di assistere al successo dell’Iran, dello schieramento sciita, Hezbollah compresi. Questo equivarrebbe a una severa sconfitta per Washington, a un’ulteriore perdita di prestigio, dopo la non gloriosa spedizione irachena. L’elezione a Teheran del moderato Hassan Rohani è stata accolta come un fatto positivo, ma non come un elemento destinato a cambiare nell’immediato l’andamento della guerra civile siriana, nella quale l’Iran ha un ruolo decisivo.
Nonostante l’annuncio di aiuti militari diretti, gli Stati Uniti hanno esitato ed esitano a fornire ai ribelli le armi necessarie per tenere testa all’esercito di Bashar el-Assad, dotato di aerei e di mezzi corazzati russi. Armi adeguate, in particolare anti-aeree, potrebbero riequilibrare la situazione sul campo. I sovietici dovettero ritirarsi dall’Afghanistan, che controllavano con aerei ed elicotteri, quando gli americani fornirono ai mujahiddin dei missili terra-aria, portabili a spalla. Ma per evitare che cadano nelle mani dei jihadisti (del Nusra Front) finora i ribelli siriani non ne sono stati dotati. Da tempo si dice che i sauditi siano pronti a fornirne.
Barack Obama si presenta all’appuntamento del G8 in una non facile posizione. Gli alleati europei sono divisi. Il mancato rinnovo dell’embargo sulle armi non è avvenuto per autorizzare le forniture ma per astensione, non essendoci l’unanimità necessaria per una decisione comune gli europei non hanno votato. Cosi la proibizione di dare armi ai ribelli è scaduta. Germania e Italia sono per la ricerca di una soluzione politica. La quale è in verità, per ora, soltanto un miraggio. Francia e Inghilterra sono per un impegno più diretto in favore dei ribelli. Ma la Francia ritiene necessaria l’approvazione del Consiglio di Sicurezza per attuare una no-fly zone, come accadde in Libia, ma la Russia e forse anche la Cina userebbero il diritto di veto. In quanto all’Inghilterra, il primo ministro Cameron deve fare i conti con i suoi alleati liberal-democratici, contrari a un impegno diretto nella guerra civile. Barack Obama è senza dubbio in preda all’angoscia. Il crampo è comprensibile, dopo l’avventura irachena dalla quale si è appena liberato, e nell’attesa che quella afgana si concluda, anch’essa senza gloria. Il presidente americano si augura probabilmente che la “linea rossa” sia piuttosto “rosa”. Insomma non troppo impegnativa.
Mosca e Washington stavano tentando di promuovere una Ginevra 2, dopo il fallimento della prima conferenza. Ma la situazione è precipitata, prima
che si precisasse l’appuntamento previsto in luglio. Le varie formazioni della ribellione non sono riuscite neppure a designare un loro rappresentante. Anche perché l’idea di sedersi a un tavolo con Assad, del quale pongono come condizione preliminare la partenza da Damasco, li ripugna. Gli F 16 acquattati in Giordania, e la minaccia di un’offensiva ad Aleppo non creano un clima favorevole. A poco prezzo, Vladimir Putin può in questo caso tener testa a Barack Obama. Il valore della carta Bashar el-Assad, che ha in mano, è aumentato negli ultimi mesi.


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