Quelle possibili via di fuga dall’annunciata apocalisse
Per farlo bisogna analizzare la crisi nel profondo e con una capacità di proiezione storica, non fermandosi alle apparenze e non facendosi distrarre dalle molte sfortunate specificità nazionali che aggravano in special modo le sofferenze sociali nell’area mediterranea europea.
Quella che il capitalismo sta conoscendo non è una delle ricorrenti crisi congiunturali, fisiologiche che accompagnano l’alternanza di cicli espansivi e depressivi del processo economico. Ci troviamo di fronte, quantomeno, ad una «tempesta perfetta», ad un intreccio e ad una sovrapposizione di tante diverse crisi. Una crisi multidimensionale e polisistemica che potrebbe preludere al cedimento strutturale delle istituzioni socioeconomiche e politiche esistenti. Non si tratta di un’ipotesi accademica. È già accaduto molte volte nella storia dell’umanità. Facendo attenzione che il «collasso – come scrive lo storico Niall Ferguson, Complexity and Collapse. Empires on the Edge of Chaos – arriva come un lampo nella notte». Gli imperi impiegano molti secoli a crescere e ad imporsi, ma pochi anni a scomparire.
Una sovrapposizione letale
Sono proprio gli studi di Joseph Tainer (The Collapse of Ccomplex Societies, Cambrige Univertity Press, 1988) e di Jared Diamond (Collasso, Come le società scelgono di morire o vivere, Einaudi) la base delle riflessioni di Mauro Bonaiuti (La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, con prefazione di Serge Latouche, Bollati Boringhieri, pp. 188, euro 15), l’economista che ha fatto conoscere in Italia Nicholas Georgescu-Roegen, padre delle teorie bioeconomiche (quelle che collocano l’economia all’interno della biosfera) e che da tempo sostiene la necessità di una trasformazione della società attraverso una decrescita conviviale, scelta, selettiva, serena.
Sappiamo già che quella che stiamo vivendo non è (solo) una crisi di solvibilità dei debiti «sovrani» e di quelli delle famiglie e delle imprese. Non è nemmeno (solo) una crisi da domanda e quindi di sovrapproduzione. Tantomeno una crisi finanziaria, visto che siamo letteralmente sommersi dalla liquidità che indossa le divise del dollaro, dello yen o dell’euro. È certo (anche) una crisi dovuta alla rarefazione delle risorse naturali, che si rendono quindi sempre meno accessibili e più costose.
È certamente una crisi ecosistemica planetaria con effetti «controproduttivi» devastanti, basti pensare agli sconvolgimenti climatici. È una crisi geopolitica dovuta allo spostamento del baricentro del sistema delle relazioni economiche da un oceano all’altro che muta consolidate «ragioni di scambio» tra ex primo mondo ed ex terzo mondo e, conseguentemente, fa saltare le bilance commerciali di molti stati. C’è sicuramente (anche) una crisi occupazionale dovuta all’innovazione tecnologiche che ha aumentato esponenzialmente la produttività industriale, i profitti delle (poche) companies multinazionali e i fallimenti a grappolo delle piccole e medie imprese, poiché sappiamo che i comportamenti competitivi non sono mai a somma positiva. C’è (anche) una crisi di profittabilità di quelle imprese (compreso il settore dei servizi) che non sono riuscite ad internazionalizzarsi. L’elenco potrebbe continuare a lungo mischiando tipologie di crisi che gli economisti solitamente attribuivano a fasi storiche distinte e a aree geografiche separate e che invece ora precipitano tutte assieme. Forza della globalizzazione. Non deve stupire quindi che medici di scuole e specialità diverse somministrano contemporaneamente al malato medicine contraddittorie: eccitanti e calmanti, antivirus e antibattericidi. Ma una pillola per ogni sintomo con cura il male.
Che il malato (il capitalismo occidentale) muoia non sarebbe una grande tragedia, avendo conosciuto quante nefandezze ha combinato durante la sua vita. Il guaio è che sta trascinando nella disperazione i ceti sociali più deboli, gli individui che nel corso della sua marcia trionfale ha reso totalmente dipendenti dalla produzione di reddito attraverso il lavoro subordinato. Quando crolla un impero, a farne le spese non sono solo i cortigiani. E ciò ci obbliga a preparare vie di fuga e alternative di vita.
Da tutte le manifestazioni della crisi in atto, Bonaiuti ne conclude che sia giunta a termine la fase economicamente espansiva dei paesi a capitalismo maturo. La riprova è la progressiva caduta dei rendimenti di tutti i fattori produttivi, da non confondersi con la sola caduta del saggio di profitto, né con l’idea ricardiana della produttività marginale decrescente. Secondo l’autore il sistema socioeconomico globale avrebbe già oggi raggiunto i limiti esterni (energetici e di sfruttamento delle risorse naturali in generale) della sostenibilità ambientale e quelli interni della tollerabilità sociale (disuguaglianze, frustrazioni consumistiche, dissoluzione dei legami comunitari), gli uni e gli altri legati alla natura entropica del processo economico capitalistico, fondato su una logica «autoaccrescitiva», predatoria ed estrattivista. Siamo dunque giunti al «crepuscolo dell’età della crescita».
La ricerca di alternative
Il libro di Bonaiuti si svolge a partire dalla riscoperta delle «scienze della complessità» nei sistemi fisici, biologici e sociali. Descrive poi l’«età della crescita» come prodotto della spirale accumulazione-innovazione. Spiega il declino dei paesi del capitalismo maturo con il fenomeno dei «rendimenti decrescenti» . Infine prospetta possibili punti di caduta della tarda modernità («scenari») ricavati dalla storia che comprendono orribili «derive autoritarie». A meno che le nostre società non scelgano di imboccare la via della resilienza e riescano ad utilizzare ragionevolmente le risorse del proprio ambiente.
Al lettore «di sinistra» il saggio di Bonaiuti provoca qualche angoscia per la mancanza dell’individuazione e della nominazione di un qualche soggetto capace di intraprendere la via di una nuova «Grande Trasformazione» polanyiana. Penso infatti che a motivare uomini e donne non sia sufficiente la ragione astratta e nemmeno la necessità imposta dal pericolo di una imminente catastrofe. Per rimuovere il «teorema dell’impossibilità» (There Is No Alternative) serve un «immaginario sociale» non certo nostalgico, ma pur sempre fondato su una libera scelta etica di valori e di interessi riconoscibili.
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Questo di Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società , (Editori Riuniti, pp. 182, euro 15) è un libro oserei dire prezioso.
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