Madri-lavoratrici, anche la Fornero ha fallito occupazione al 56% contro l’88% maschile

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DONNE, figli, lavoro. Tre parole che nella stessa frase suonano come un miracolo. Almeno in Italia. Quando le donne diventano madri diminuisce il loro impegno nel lavoro, nonostante combattano ogni giorno come partigiane per mantenerlo. Il centro studi Red Sintesi, elaborando i dati Istat 2012, ha delineato in esclusiva per Repubblica il profilo di queste eroine della porta accanto, confermando una disparità  che nessuna riforma nel nostro Paese è mai riuscita a intaccare.
Così è emerso che il tasso di attività  delle donne tra i 25 e i 54 anni è complessivamente del 66,4%, il 23% in meno rispetto agli uomini. Stesso divario che si ritrova nel tasso di occupazione, che tra le donne è al 59% e tra gli uomini all’82%. Ma la differenza si fa più evidente quando in famiglia arrivano i figli, perché mentre da una parte il tasso di attività  femminile scende al 62% e quello di occupazione al 56%, tra gli uomini gli stessi dati registrano un incremento, salendo rispettivamente al 94 e all’88%. Insomma la fotografia immutabile, in Italia, del pater familias che porta a casa lo stipendio.
Le donne, per quanto capaci e produttive, quando diventano madri si ritrovano penalizzate sul versante professionale, spesso costrette a lasciare l’impiego: nel 2012 il 96% delle cosiddette “dimissioni convalidate” (istituite con la riforma Fornero per evitare le dimissioni in bianco) registrate dal ministero del Lavoro, riguarda casi di lavoratrici madri. E anche quando riescono a conservare l’impiego, spesso devono ridurre l’orario, il livello di responsabilità  e quindi anche la retribuzione, tagliata mediamente del 6,3% rispetto ai maschi.
Fatti i calcoli, una donna con figli deve lavorare 20 ore di più rispetto a un uomo ‘papà ‘ per guadagnare la stessa cifra. Le donne che ‘mollano’ sono per il 62% persone 26-35enni che non riescono a conciliare famiglia e lavoro. Un fenomeno che riguarda per lo più il settore dei servizi e del commercio, perché è qui che si concentra la forza lavoro rosa. Le mamme lavoratrici, nel 53% dei casi danno le dimissioni perché non sanno a chi affidare il bambino. In particolare, di queste il 36,8% non lo può lasciare al nido pubblico perché non rientra nelle graduatorie, il 32% non ha parenti che se ne prendano cura, il 16,5% lavora in un’azienda che non concede flessibilità  di orario o il part time così da permettere la conciliazione tra esigenze familiari e professionali.
E anche l’alternativa della baby sitter o del nido privato si rivela troppo costosa nel 14,6% dei casi, specialmente in una fase di crisi economica come l’attuale.
Così una fetta consistente di potenziali lavoratrici preferisce stare a casa per dedicarsi alla cura dei familiari (27,2%) e una fetta non meno importante (18,6%) lo fa perché ha gettato la spugna, è scoraggiata, o semplicemente non ha interesse a lavorare (17,6%). Ma tra le donne che restano a casa per la cura dei familiari c’è un 17%, pari a 204mila donne, che «potrebbe cambiare la propria posizione rispetto al mercato del lavoro se avesse servizi adeguati », spiegano i ricercatori di Red Sintesi, che hanno effettuato una simulazione sugli effetti sul mondo del lavoro di un miglioramento del livello di servizi di assistenza alla famiglia: «Il tasso di attività  femminile potrebbe crescere dell’1,6%». Ad avallare questa tesi l’esempio di Paesi come Svezia, Danimarca, Finlandia e Olanda, dove servizi pubblici di assistenza alla famiglia e la possibilità  di chiedere il part time mantengono il livello occupazionale delle mamme lavoratrici a tassi intorno all’80%. Ma lì il part time è volontario e non una scelta obbligata dal datore di lavoro, come avviene invece in Italia o in Spagna dove è trasformato in uno strumento legale per fare qualcosa di illegale: calpestare il diritto al lavoro.


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