Siria, il regime all’offensiva Ora i ribelli sono nell’angolo

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GERUSALEMME — Diciotto mesi fa, l’11 dicembre 2011, Ehud Barak prediceva: «I giorni di Bashar Assad sono contati». Da allora il ministro della Difesa israeliano si è ritirato dalla politica, il presidente siriano è ancora al potere. La televisione di Stato mostra le immagini del leader in giro per Damasco, un gruppo di sostenitori diffonde su Facebook quelle della moglie che accompagna i due figli a scuola. Il messaggio (per i ribelli e per il resto del mondo) è chiaro: restiamo qua, stiamo vincendo.
L’esercito regolare da più di un mese porta avanti un’offensiva nella zona di Homs e da lì verso il villaggio di Qusayr a pochi chilometri dal confine con il Libano. Gli attacchi sono stati intensificati nel fine settimana e le truppe di Assad sono affiancate dai combattenti di Hezbollah. Insieme stanno ricatturando un’area fondamentale: da qui passano le armi e gli approvvigionamenti per i rivoltosi, controllare queste zone permetterebbe al regime di ritagliarsi una fascia di sicurezza che va dalla capitale fino alla costa, dove gli alauiti (la stessa setta del clan al potere, minoranza nel Paese) sono la maggioranza.
I funerali nella valle libanese della Bekaa raccontano quel che sta succedendo dall’altra parte della frontiera ancor più dei botti e delle colonne di fumo. I corpi sono avvolti nei drappi gialli e verdi di Hezbollah. Il movimento alleato di Assad e dell’Iran ammette di aver perso venti uomini tra sabato e domenica, i ribelli sunniti proclamano di averne uccisi almeno quaranta. Nel conflitto con Israele dell’estate 2006 i guerriglieri sciiti caduti sono stati 250 (secondo altre stime 500): una media di 8 al giorno. La contabilità  della morte spiega che nelle campagne attorno a Qusayr e fin dentro la città  gli scontri sono durissimi, che i ribelli per ora resistono agli assalti e ai bombardamenti dell’aviazione. «Le nostre vittime sono state quasi tutte causate da ordigni piazzati dagli insorti lungo le strade», spiega una fonte di Hezbollah all’agenzia France Presse. Aggiunge: «Adesso stiamo inviando le nostre truppe speciali».
Perché l’offensiva sia stata lanciata proprio adesso, lo spiega Bassam Abu Abdallah, direttore a Damasco del centro di Studi strategici, legato al regime: «Assad sta preparandosi alla conferenza internazionale di Ginevra — commenta sempre alla France Presse —. Vuole dimostrare all’opposizione, agli americani e agli europei che l’opzione militare non può funzionare. Va cercato un accordo che lo garantisca».
I russi e i cinesi non hanno bisogno di essere convinti, dall’inizio della rivolta nel marzo del 2011 non hanno mai abbandonato il presidente. Una settimana fa Vladimir Putin ha convocato sul Mar Nero Benjamin Netanyahu. Il presidente russo ha ribadito al premier israeliano la posizione di Mosca: la fornitura alla Siria di missili antiaerei S-300 va avanti. Anche l’Iran non ha mai interrotto le consegne di armamenti all’alleato più importante nella regione.
John Kerry, segretario di Stato americano, arriva oggi in Giordania per preparare il vertice di Ginevra. La diplomazia internazionale prova a fermare una guerra civile che ha causato almeno 80 mila morti. Il rischio è anche che il conflitto coinvolga i Paesi confinanti. A Tripoli, nel nord del Libano, continuano gli scontri tra alauiti e miliziani sunniti. Sulle alture del Golan, conquistato alla Siria da Israele nel 1967, l’esercito di Assad ieri ha sparato contro un blindato di Tsahal e i soldati sul veicolo hanno riposto al fuoco. E’ la prima reazione del regime dopo i raid dell’aviazione israeliana che hanno colpito basi militari e convogli di armi che sarebbero stati destinati a Hezbollah. Benny Gantz, capo di Stato Maggiore israeliano, ha minacciato: Damasco pagherà  le conseguenze per qualunque altra aggressione.
Davide Frattini


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