Il confine salafita

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SIWA (Confine Egitto/Libia). Decine di beduini attendono una risposta sulla sorte delle sette persone coinvolte tre giorni fa in una sparatoria all’alba alle porte della sede della polizia locale dell’Oasi berbera di Siwa. Hanno passato la notte accampati ai lati dell’ingresso del commissariato. A rendere più cupo lo sguardo dei beduini era arrivata la notizia dell’incendio al commissariato di Bengasi, forse un regolamento di conti dopo l’attentato all’ospedale della seconda città  libica della scorsa settimana. «Non avevamo mai assistito a tanta violenza», ci spiega Khaled, uno di loro. Nel deserto egiziano, a pochi chilometri dal confine libico, si parla Siwi, un antico dialetto tribale. E proprio lo scontro tra i tradizionali capi tribù locali e i salafiti, che qui, dopo le rivolte del 2011, controllano il consiglio locale, rompe la tranquillità  tra i palmeti. «Gentili visitatori, le donne coprano le gambe e l’avambraccio», si legge sui cartelli all’ingresso del suk del villaggio.
Lo scontro a fuoco che ha svegliato questo luogo remoto è solo in parte politico. Nasce per il controllo delle tonnellate di sale che vengono estratte nelle saline che circondano i laghi del deserto di Siwa. «Dallo scoppio delle rivolte al Cairo i notabili locali appaiono inquieti – continua Khaled – Hajj Bilal (per due volte deputato al Cairo, ndr) ha acquisito, decenni fa, i terreni contestati. Ma ora (islamisti e gente comune, ndr) hanno intenzione di praticare una ridistribuzione che rompe le consuetudini locali». La vera novità  in quest’Oasi remota è venuta con la presa di posizione dei giovani Siwi, principalmente salafiti e Fratelli musulmani, che si sono mobilitati contro le quattro famiglie che godevano della proprietà  terriera fino a quel momento. «Hanno iniziato contestando gli affari che Hajj Bilal aveva con l’esercito e sono arrivati a mettere in discussione la proprietà  del sale estratto dai laghi salati», rivela il giovane. Questo meccanismo concedeva ai capi tribali di controllare gli introiti delle esportazioni dalle saline.
Nei primi sit-in i giovani Siwi urlavano: «Questo lago non appartiene a Bilal!». Dopo le elezioni e con la schiacciante vittoria del partito salafita Al-Nour è stato formato un comitato permanente che ha spinto per una completa ridistribuzione delle terre. Questo spiega la sparatoria di ieri. La quantità  di armi, senza precedenti, in dotazione dei familiari di Hajj Bilal ha spinto alcuni tra loro a sparare contro gli islamisti, attivi per la ridistribuzione delle proprietà  terriere. «Uno di coloro che ha sparato, era lo zio di mia moglie. Non è accettabile che si mettano in discussione contratti già  firmati per volontà  di questa gente», aggiunge Khaled, rivelando la sua appartenenza al clan di Hajj Bilal.
«Con le rivolte, il potere dei notabili locali è stato messo in discussione. I capi famiglia sono conservatori, cercano compromessi facili e non si battono per idee nuove ma solo per interessi personali», inizia Stefan, giovane antropologo francese che vive da anni a Siwa. «Negli episodi di maggiore violenza, mentre tra l’Egitto e la Libia, abbiamo attraversato un fuoco di fila senza precedenti, sono entrati sulla scena politica i salafiti. Hanno fatto irruzione nelle stazioni della Sicurezza di Stato (Amn-El Dawla) per recuperare e distruggere tutti i documenti accumulati negli anni sul loro conto. Anche a Marsa Matruh (città  costiera a poche ore da Alessandria, ndr) vari commissariati sono andati in fiamme», prosegue Stefan.
Lo scontro tra sufi e salafiti
Nella «Repubblica islamica di Siwa» le critiche si sono quindi spostate contro chi non segue i costumi salafiti. Per le strade di quest’Oasi è impossibile vedere una donna che non abbia il velo. Le nubili sono coperte integralmente, neppure gli occhi emergono nel nero intenso del loro nikab. Le madri, che hanno una funzione sociale essenziale all’interno delle famiglie, oltre al velo nero integrale sono avvolte in un grande scialle azzurro chiaro. Per le vie dell’Oasi camminano su piccoli carretti, trainati da asinelli. Spesso in tre o quattro formano un minuscolo gruppo in movimento tra le magnifiche rovine della città  antica. Le case costruite di sabbia e fango sono andate progressivamente scomparendo e così si vedono i resti di moschee e abitazioni, circondate da estesi palmeti, mentre le dune del deserto si perdono tra i laghi di sale. Siwa è immersa nell’acqua che riemerge nelle fonti e nei rivoli dei torrenti che la circondano. E così sono fiorite le industrie che producono acqua in bottiglia, mentre dai palmeti arrivano i datteri che in gran quantità  vengono esportati in tutto il mondo. Non solo gli uliveti danno nutrimento a migliaia di contadini che imbottigliano il particolare olio dell’Oasi. Questa calma apparente nasconde le irrisolte tensioni religiose tra sufi e salafiti. Il vecchio e cieco sheikh dell’antichissima moschea Al-Athiq difende in ogni modo la sua identità : «Sono sufi, siamo in tantissimi qui e perseveriamo nelle nostre tradizioni». Sheikh Abdallah fa la lista delle festività  sufi (mawlid) che hanno luogo tutto l’anno nell’Oasi e ci racconta degli incontri del giovedì sera quando i mistici, in circolo, danzano e basculano come nella tradizione del culto dei santi. A Siwa sono attive tre confraternite sufi, ma sono soprattutto gli anziani a portare avanti un culto, malvisto da salafiti e Fratelli musulmani.
«Sono pochissimi i sufi di Siwa», controbatte Abu Qader, esponente del partito salafita al-Nour. Gli estremisti islamici qui vengono visti come uomini semplici, dalla parte dei poveri. Incontriamo Qader mentre costruisce la sua casa tra le nuove abitazioni di el-Tubuh. La sede di el-Nour è nata al secondo piano di una drogheria in un minuscolo palazzo nuovo. «Siamo il partito più grande a Siwa, l’80 percento dell’Oasi, non dico 100 per rispetto verso il presidente Morsi e i Fratelli musulmani», assicura l’uomo soddisfatto della sua barba incolta. «Lavoriamo per i poveri e per il rispetto dell’Islam, vorremmo che l’ospedale fornisse nuovi servizi e ci riusciremo», aggiunge. «I sufi sono sempre di meno, sono lontani dalla retta via del profeta», conclude Abu Qader prima di tornare al suo lavoro.
Anche a Siwa sono arrivate le notizie delle gravi violazioni ai luoghi di culto sufi che hanno colpito questa regione. Dalla caduta del regime di Gheddafi, decine di tombe sufi sono state prese d’assalto a Tripoli. L’ultima nel mese di marzo alla moschea Sidi Al-Andlusi nella periferia della capitale libica. Per prevenire ulteriori assalti, i sufi egiziani, che non hanno ottenuto la legalizzazione di un partito politico, stanno formando comitati popolari contro le incursioni salafite. Alaaeddin Abul-Azayem, fondatore della confraternita sufi Azamiyya ha assicurato che questo è l’unico modo per evitare che si ripetano gli incendi ai mausolei sufi di Tanta e Mounoufiya dei mesi scorsi.
Tra armi e costumi omosex
La serenità  di un paradiso come Siwa è messa costantemente a rischio dal continuo afflusso di armi dalla Libia. Secondo le Nazioni unite, dopo la caduta di Gheddafi, gran parte degli armamenti sottratti all’esercito regolare libico sarebbe rimasta in mano a civili e gruppi di ribelli. L’assenza di intervento di polizia e esercito non permette di ripristinare il controllo sui confini. Le armi libiche arrivano soprattutto in Mali e in Siria. L’Egitto è un paese di transito per armamenti che viaggiano verso la Striscia di Gaza, ma spesso anche luogo di arrivo per una società  che avverte la necessità  di auto-difendersi. «Il confine tra Libia e Egitto è molto più pericoloso che in passato. L’esercito raramente ferma una macchina piena di esplosivi, delle volte anche carri che trasportano missili. Se impauriti, i conducenti scappano via, ma la maggior parte delle volte non vengono neppure fermati dai militari», ci spiega Ahmed, medico che ha assistito decine di giovani per ferite di arma da fuoco. «Una pistola che in Libia costa 100 qui viene venduta a 5mila, ho assistito a decine di sparatorie tra trafficanti di alcolici, di farmaci e questo mi preoccupa perché l’assenza dello stato e delle forze dell’ordine rende più grave l’incertezza», continua. Ma in pochi minuti tutto torna alla normalità  tra i giardini dove spesso i beduini si intrattengono per rapporti tra uomini. L’isolamento dell’Oasi di Siwa e i costumi islamici hanno influenzato le abitudine di queste terre. Sebbene non sia il caso di parlarne apertamente, a Siwa i giovani hanno spesso relazioni con loro coetanei oppure capita che diciassettenni inizino piccoli di tredici anni alla loro vita sessuale. Si racconta che esistono dei veri e propri matrimoni tra uomini anche se nessuno osa parlarne apertamente. Tra contraddizioni, neo-salafismo, due rivolte e violenze, armi e transizioni democratiche incompiute, i beduini di questa terra di mezzo continuano la loro vita tranquilla in galabeya bianca e kefiah.


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