Il romanzo triste dei due Bellow

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Pare che poco prima di morire nel 2005 all’età  di ottantanove anni, Saul Bellow abbia confidato a un amico di avere un dubbio tormentoso: «Was I a man or a jerk?». Se ci permettiamo di tradurlo letteralmente con «Sono stato un uomo o uno stronzo?», è perché si trattava di una domanda giustificata, secondo il figlio maggiore Greg Bellow, autore di un libro intitolato Saul Bellow’s Heart, che, appena uscito negli Stati Uniti e in Gran Bretagna da Bloomsbury, è già  accompagnato da un’aura di controversia: liquidato dai paladini dell’autore di Herzog come un insieme di indiscrezioni che sarebbe stato meglio tenere in famiglia; e interpretato dalla maggior parte dei lettori e dei critici come un ritratto ambivalente, confuso, pieno di rabbia e di amore non corrisposto, di uno scrittore, padre e marito seriale, che ha trovato nel successo l’autorizzazione a non tenere a freno l’egoismo e la vanità .
Greg Bellow è uno psicoterapeuta, ma sarebbe un’ingenuità  pensare che questo lo abbia reso più idoneo di altri ad affrontare i suoi conflitti col padre e risolverli in un libro scritto per riconciliarsi con la sua memoria. Perché non c’è dubbio che Saul Bellow’s Heart testimonia il fallimento di questo tentativo, ma anche qualcos’altro.
Il maggiore dei quattro figli che Bellow ha avuto da quattro mogli diverse ritrae infatti il padre come un uomo dalla personalità  scissa: uno scrittore che nell’arco dei dodici anni trascorsi dalla pubblicazione del suo primo successo nel 1964, Herzog, e la vittoria del premio Nobel nel 1976, è passato dall’essere «un giovane pieno di domande a un vecchio pieno di risposte». Là  dove il «Giovane Saul» era un idealista, un socialista, un ribelle innamorato delle idee di Wilhelm Reich, ed era capace di ridere del mondo e di sé, il «Vecchio Saul» nato a Stoccolma il giorno della cerimonia del Nobel, era un reazionario a cui andava bene di essere considerato un pensatore vicino a Reagan, e allo stesso tempo era un padre freddo e un marito egoista che aveva sacrificato il calore umano e l’autoironia al «pessimismo, la rabbia, l’amarezza, l’intolleranza e la paura della morte».
Per non parlare di come il «Vecchio Saul» abbia vissuto come un affronto personale l’ondata di political correctness degli anni Ottanta che si accompagnò a un’accresciuta influenza delle donne e dei neri nel mondo dell’accademia. «Esiste forse un Tolstoj tra gli Zulu?» diceva per provocare i neri. E alle femministe: «L’unica cosa che tra una decina d’anni avrete da mostrare per il vostro movimento saranno dei seni cadenti!». All’università  di Chicago, dove era stato il fiore all’occhiello del dipartimento di Pensiero sociale, il professor Bellow diventò da quel momento anche fonte di imbarazzo.
Viene dunque da chiedersi: sarà  per questo che malgrado l’indubitabile statura del Bellow scrittore, la sua fama è andata in questi anni appannandosi, e i suoi libri vengono adottati sempre meno nelle università  anglosassoni? Sembra essere questa la tesi verosimile di Greg Bellow, il quale, separato dal padre all’età  di cinque anni, ci tiene a ricordare di essersi formato fino ai vent’anni all’ombra non di uno scrittore ricco, celebre e adulato, ma di un intellettuale squattrinato e dipendente dal lavoro della moglie, che desiderava dare al figlio quello che non aveva avuto dal proprio padre autoritario e violento. «Sono un uomo sposato, papà . Non puoi più picchiarmi», è una frase di Saul rivolta al padre Abraham, che Greg riporta qui con infinita pena.
Ma chi è disposto ad avere pena, invece, dei figli dei grandi uomini? Non gli agenti letterari, scrive Greg, dal momento che alla morte di Bellow Andrew Wylie avrebbe trasformato le sue esequie in «un’opportunità  di marketing», invitando a parlare alle commemorazioni giovani scrittori della sua scuderia come Jeffrey Eugenides, e negando quest’onore — e diritto — ai figli. E nemmeno le mogli: se è vero che dopo il matrimonio con la radicale Anita Goshkin, madre di Greg; quello con l’infedele Sasha Tschacbasov, madre di Adam; quello con la bellissima e viziata Susan Glassman, madre di Daniel; e quello con la matematica romena Alexandra Bagdasar — se è vero che l’ultima moglie di Bellow Janis Freedman, quarant’anni più giovane di lui e sua ex segretaria, ha organizzato «un colpo di Stato», licenziando l’agente letteraria che aveva sempre seguito Bellow per mettere al suo posto Wylie, trovando un nuovo avvocato, un nuovo consulente finanziario e persino un nuovo cimitero — un cimitero non di famiglia — per seppellire, nel 2005, il fragilissimo e vecchissimo marito che aveva acconsentito a darle una figlia a 83 anni, con l’aiuto dell’inseminazione artificiale.
Grazie al nuovo testamento steso prima di morire, scrive Greg, ora Janis Freedman è la sola custode dell’eredità  letteraria dell’autore del Dono di Humboldt, ai figli dello scrittore non è concesso l’accesso agli archivi del padre, e la ripartizione della sua ricchezza è stata rivista a scapito dei figli maschi.
In questo contesto deprimente e tristemente umano, Saul Bellow’s Heart non sarà  ricordato come un bel libro, o come un libro necessario ad apprezzare meglio le opere di Bellow o a rilanciarle. Sarà  ricordato come il libro in cui si legge che quando è morto «il più grande scrittore americano della seconda metà  del XX secolo» — secondo il giudizio di Philip Roth — il suo avvocato invece di avvisare i figli ha avvisato la stampa, dalla quale la famiglia ha dovuto apprendere la notizia. «Come ha detto amaramente mio fratello Dan pochi giorni dopo la morte di Saul», scrive Greg, «persino la polizia mostra nei confronti dei figli delle vittime di un incidente più sensibilità  di quella che l’avvocato ha mostrato nei confronti dei figli di Saul Bellow».


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