Videla, morte di un assassino

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Anche se, dopo le varie condanne inflitte, si era preparato all’idea che questo 87enne potesse lasciare di soppiatto la cella in cui ha passato l’ultimo dei suoi giorni. La reazione della società  davanti alla notizia è stata praticamente unanime: rispetto per l’uomo che muore, disprezzo per l’architetto di un genocidio. Presidente de facto dal 1976 al 1981, Videla viene associato a molte cose, ma a 28 anni di distanza dal suo primo ergastolo, oggi, risulta legato soprattutto a una parola: desaparecidos . Per questo, i primi a far sentire la loro voce davanti alla conferma del decesso da parte delle autorità  penitenziarie, sono le figure di spicco di quella costellazione di vite stravolte, che la dittatura ha lasciato dietro al suo passaggio.
«Noi non festeggiamo la morte di nessuno, noi celebriamo quando si fa giustizia», ha esordito Nora Cortià±as, una delle più note tra quelle ormai anziane madri che nell’aprile del ’77 scesero per la prima volta in Plaza de Mayo e chiesero di essere ricevute dal presidente che guidava la politica di rapimento, tortura e occultamento dei cadaveri dei loro figli e che oggi, nonostante le manifestazioni davanti alla Casa Rosada continuino, è morto senza prestare ascolto a quella vecchia richiesta. «Un essere spregevole ha lasciato questo mondo», precisa Estela Carlotto di Abuelas de Plaza de Mayo , costretta a vivere in una realtà  divisa tra «uomini buoni e uomini cattivi», in cui per colpa di «un uomo cattivo» come Videla, lei e le altre nonne che compongono l’associazione ancora cercano i bambini nati nelle carceri clandestine del governo militare e dati segretamente in adozione.
A causa di quello che la giustizia argentina ha chiamato «Piano sistematico per impadronirsi dei minorenni», Videla prese 50 anni nel luglio scorso, che si aggiungevano a un primo ergastolo nell’85 per la repressione violenta, indultato nel ’90 e ripristinato nel ’98. Nonostante sentenze del genere permettano al segretario per la Difesa dei diritti umani, Martin Fresneda, di affermare che «lo Stato deve soprattutto consacrare che sia stata fatta giustizia», la sua morte resta «un problema enorme» per gente come Maria Victoria Moyano, nata nella prigione clandestina detta Pozzo di Banfield e oggi attiva in politica. «Ho 34 anni e non so ancora qual è stato il destino dei miei genitori», dice, facendo eco alle prese di posizione di chi come lei si è accorto maggiorenne di essere figlio di un desaparecido e di essere stato cresciuto dagli amici dei suoi carnefici. «Videla mi ha tolto gli abbracci di mia madre e il conforto di mio padre – tira le somme il consigliere comunale di Buenos Aires, Juan Cabandié – non lo odio, né vorrei vendicarmi, ma era un uomo temibile e perverso».
Davanti a questo composto fragore delle vittime, si alza il silenzio dei complici. Non vuole parlare con il manifesto il sottosegretario all’economia del governo Videla, Juan Alemann, la più alta carica ancora in vita di quella squadra di civili che guidò la politica economica dei militari e che per molti analisti attuali fu la versione finanziaria della «guerra sporca» contro gli oppositori politici: un eccidio. Silenzio stampa anche per il generale in congedo Reynaldo Bignone, che fu uno dei successori di Videla alla presidenza golpista, mentre la dittatura si sfasciava e la democrazia stava per tornare. «È troppo sconvolto per la morte della moglie – dice al telefono la figlia Cristina – comunque nella Repubblica Argentina non c’è giustizia, ma solo vendetta».
Un concetto che in parte condivide anche Cecila Pando, presidente dell’Associazione familiari e amici dei prigionieri politici d’Argentina (i prigionieri sarebbero i gerarchi militari in carcere) e che per prima ieri mattina ha dato la notizia della morte dell’ex presidente. «Videla è morto a causa di una prigionia illegale, perché quando furono commessi i fatti che gli si attribuiscono non esistevano i crimini di lesa umanità  e se volessimo fare un uso retroattivo della legge, dovremmo processare anche i guerriglieri, molti dei quali stanno oggi al fianco della presidente»,
Cristina Kirchner. I militari e i nostalgici del loro governo sostengono tuttora che il terrorismo di Stato fu l’inevitabile rimedio al terrorismo civile che li attaccava. Solo qualche settimana fa, Videla ha ricusato il tribunale che lo stava processando per delitti commessi contro cittadini stranieri, dicendo di aver agito in difesa della pace, nell’ambito di una «guerra civile». Innumerevoli indagini, inchieste e ricerche hanno ormai dimostrato che quella che lui definiva «lotta anti-sovversiva», investì invece interi strati della cittadinanza, tra cui anche neonati di cui sarebbe difficile dimostrare qualche responsabilità  penale. Una storia tragica, a cui uno dei «cattivi» ha smesso per sempre di contribuire.


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