Il fantasma di Bagdad che paralizza Obama in Siria

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Abbiamo alcuni falchi – John McCain, Paul Wolfowitz – che ci esortano a intervenire, e in contrapposizione a loro i moniti ormai familiari di chi ricorda il rischio di finire in un “pantano”. Abbiamo perfino qualche poco chiara segnalazione d’intelligence sull’uso da parte del regime di armi di distruzione di massa.
Questa volta, però, abbiamo un presidente che, dopo essersi opposto al dispendioso e marchiano errore in Iraq e aver visto confermate con successo le sue posizioni, si sta trattenendo. Il ritornello ripetuto al Consiglio per la sicurezza nazionale è: «Non ci faremo ingannare una seconda volta». Di norma, io ammiro il freddo calcolo politico del presidente Barack Obama in questioni di politica estera, un indubbio e consistente passo avanti rispetto all’arroganza militante del suo predecessore. E in tutta franchezza ho approvato la sua perplessità  nei riguardi della Siria, in parte perché durante una precedente pausa nei miei articoli sulla stampa all’inizio dell’invasione dell’Iraq mi ero scoperto io stesso un falco riluttante.
Quello si rivelò essere un mortificante errore digiudiziodapartemia,chemihareso più cauto nell’uso delle armi. Naturalmente ci sono alcune lezioni importanti da trarre dalla nostra infelice esperienza in Iraq: essere chiari in merito all’interesse nazionale dell’America; essere scettici nei riguardi dell’intelligence; essere attenti a chi dare fiducia. E ancora: tener conto dei limiti delle nostre forze armate; non cacciarsi mai in una crisi, soprattutto se in Medio Oriente, convinti di andare a fare una passeggiata.
Temo tanto, però, che nel caso della Siria la cautela si sia trasformata in fatalismo, e che la nostra prudenza sia diventata la madre delle occasioni perdute,
della credibilità  in calo e di una immane tragedia.
Gli Stati Uniti hanno fornito aiuti umanitari ed esercitato pressioni a livello diplomatico. Ma la nostra riluttanza ad armare i ribelli o a difendere i civili massacrati nelle loro stesse case ha persuaso il regime di Assad (e il mondo intero) che non siamo autorevoli. Il nostro timore che le armi fornite ai ribelli possano passare nelle mani dei jihadisti è diventato una di quelle profezie che si autoavverano, perché invece di trattare direttamente con i ribelli abbiamo lasciato che fossero le monarchie fondamentaliste dell’Arabia Saudita e del Qatar a farlo e ad armarli, così che ormai molto verosimilmente per ammansire gli islamisti più radicali stanno utilizzando aiuti devastanti.
Sarebbe stato di gran lunga più semplice intervenire un anno fa, prima che l’opposizione si frammentasse fino a questo punto. Ma all’epoca il presidente era occupatissimo a porre fine ai nostri preesistenti impegni all’estero, e non era dell’umore giusto per sottoscriverne un altro. Per di più, eravamo tutti preoccupati dalle rivelazioni a sensazione del programma nucleare iraniano, della rivoluzione in Egitto e dei voti nelle elezioni in Ohio. Da allora Assad si è fatto scaltro, la sua ferocia ha intrapreso una graduale escalation — prima l’artiglieria, poi i bombardamenti aerei, poi i missili Scud e ora, a quanto pare, le armi chimiche — pur tenendosi sempre al di sotto di quella soglia di efferatezza che potrebbe costringerci a reagire.
Dal team di Obama ci sentiamo ripetere che sappiamo ancora troppo poco sulle dinamiche interne alla Siria, e quindi non possiamo prevedere che cosa possa scatenare un nostro intervento, tranne il fatto che non ci sarebbe un happy ending; e che se la morte di 70mila siriani è sicuramente tragica, questo è quanto accade nel corso di una guerra civile; e che non si può concedere fiducia a nessuno all’opposizione e,cosaancorapiùimportante,noinonabbiamo alcun interesse indispensabile da quelle parti. Obama ha riconosciuto che l’uso di gas tossici supererebbe la soglia fissata, perché non possiamo permettere che il mondo pensi che tolleriamo che si
cospargano i civili di gas nervino. Ma, anche in questo caso, il presidente dice che si sentirebbe costretto a intervenire in caso di utilizzo “sistematico” di armi chimiche, come se qualsiasi cosa di poco inferiore – un utilizzo graduale? un utilizzo sporadico? – potesse essere considerata accettabile. Tutto ciò suona alle nostre orecchie come un tentativo da parte del presidente di trovare scappatoie per rimanere fermo. Ma nel guardare alla Siria, è utile tenere presente per quali aspetti essa non è l’Iraq. Prima di tutto, in Siria abbiamo a rischio un autentico interesse nazionale, non un interesse fittizio. Una Siria fallita diventerebbe un ulteriore rifugio per i terroristi, un pericolo per i paesi confinanti tutti alleati degli Usa. «Non possiamo tollerare una Somalia ai confini di Israele, Libano, Giordania, Iraq e Turchia» ha detto Vali Nasr, che da quando nel 2011 ha lasciato il team dei consulenti di politica estera di Obama è diventato uno dei suoi critici più pungenti. Del resto, ha proseguito, non possiamo nemmeno permetterci di lasciare che iraniani, nordcoreani e cinesi deducano dal nostro atteggiamento che ci stiamo ripiegando su noi stessi, diventando la
Dispensable Nation (la nazione superflua), volendo utilizzare il titolo del nuovo libro pubblicato da Nasr.
In secondo luogo, in Iraq la nostra invasione scatenò una guerra settaria. In Siria questa è già  in corso da tempo. Terzo, disponiamo di opzioni che non prevedono l’invio di soldati statunitensi sul terreno, iniziativa per altro contrastata da tutti. Nessuna delle opzioni disponibili è comunque del tutto esente da rischi. Armare alcuni gruppi di ribelli non ci conferisce necessariamente influenza. La tanto sollecitata no-fly zone esporrebbe i piloti statunitensi ai tiri della contraerea siriana. Lanciare missili per distruggere le forze aeree di Assad e le piattaforme di lancio degli Scud, difendendo almeno un po’ la popolazione civile e offrendo un margine operativo ai ribelli, comporta il pericolo di una missione da brivido. Ma come sottolinea Joseph Holliday, analista siriano all’istituto di studi di guerra, in questi calcoli si perde di vista quale sia l’oneroso prezzo, potenzialmente disastroso, legato al fatto di non fare niente. Ciò include il pericolo che starne fuori oggi significhi essere coinvolti in seguito (e in modo più considerevole), quando, per esempio, un giorno un Assad ormai disperato dovesse utilizzare il Sarin alla periferia di Damasco, o quando la Giordania dovesse collassare per l’ingente afflusso di sfollati siriani.
Quarto, nel caso dell’Iraq abbiamo dovuto persuadere con lusinghe e imbrogli il mondo intero a unirsi alla nostra causa. Questa volta abbiamo alleati che stanno aspettando che noi si faccia un passo avanti e si prenda in mano la situazione. Israele, al di là  del suo stesso interesse, pare aver rinunciato ad aspettare.
Chi sostiene che dovremmo fare di più (un gruppo di persone che comprendeva Hillary Clinton e DavidPetraeusprimachelasciasserol’Amministrazione) non concorda nei dettagli su cosa significhi effettivamente quel di più, ma potrebbe trattarsi di una cosa di questo tipo: tanto per cominciare, Obama spiega chiaramente in che modo la disintegrazione della Siria rappresenti un grave pericolo per gli interessi e gli ideali dell’America. Gli Stati Uniti passano quindi ad assumere il controllo dell’addestramento e dell’armamento dei ribelli, procurando le armi tramite il Consiglio militare supremo dei ribelli, e prendendosi direttamente cura degli insorti che si impegnano a negoziare una transizione ordinata e composta verso una Siria non lacerata da divergenze settarie. Poi facciamo capire chiaramente ad Assad che qualora egli non interrompa la sua campagna di terrore, dando il via a negoziati per un nuovo ordine, pagherà  un prezzo molto salato. E quando egli rifiuterà , lanceremo missili contro le sue postazioni militari fino a quando egli – o più verosimilmente quelli che gli stanno accanto – non determinerà  che farebbero bene a chiedere la pace.
Tutto ciò dovrebbe essere meticolosamente organizzato, diretto e portato avanti in concomitanza con tutta una serie di azioni diplomatiche concertate per tenerci stretti gli alleati e tenere a bada i nemici. Finalità  ultima di tale impresa dovrebbe essere la creazione di un governo di transizione, reso stabile per un certo periodo da un dispiegamento di forze internazionali di peacekeeping, dislocate per lo più dagli stati confinanti come la Turchia.
Con ciò non intendo minimizzare le cose. Può darsi benissimo che le proteste interne siano troppo forti e troppo esacerbate per scongiurare un sanguinoso periodo di rappresaglie. Ma, se ne restiamo fuori, quel risultato è pressoché inevitabile. L’Amministrazione adesso prepara piani di contingenza lungo queste linee, nel caso in cui l’impiego di armi chimiche da parte di Assad ci forzi la mano. Ma perché aspettare altre atrocità ?
«Dobbiamo cambiare i calcoli politici di coloro che sono vicini ad Assad, per far sì che siano loro stessi a trovare una soluzione migliore dell’andare fino in fondo» ha detto Anne-Marie Slaughter, docente di Princeton ed ex direttore di pianificazione politica per il Dipartimento di stato sotto la guida di Hillary Clinton, sostenitrice di un intervento dalla prim’ora. «Quanto prima cambieremo tale menta-lità , tanto più possibile diventa un accordo politico».
«Dal 2009 la vera sfida per questa Amministrazione è stata comprendere come far andare avanti il paese, superando la guerra in Iraq e arrivando a una politica estera razionale e proficua» ha aggiunto Vali Nasr. «Ma non è accaduto. Siamo paralizzati come un cervo davanti ai fari di un’automobile. Non si fa altro che rimettere in causa la guerra in Iraq. A prescindere però da quello che decideremo, per iniziare a risolvere positivamente le cose in Siria dovremo superare una volta per tutte l’Iraq.
Traduzione di Anna Bissanti © 2013 New York Times News Service Distributed by The New York Times Syndicate.


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