L’ex sindacalista punta già  alla conferma

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ROMA — Il clima non è dei migliori. Il Pd è in affanno e si arrocca: vietato l’ingresso ai giornalisti. Non si sa mai. Spiegazione ufficiale: potrebbero confondersi con i delegati e partecipare alle votazioni. Spiegazione ufficiosa: con tutti questi cronisti, dirigenti, parlamentari o anche semplici iscritti possono sbizzarrirsi nelle critiche e questo nuocerebbe al partito.
Il clima non è dei migliori: si va in bagno blindati. In mattinata — tarda — è Matteo Renzi a dover fare pipì. Cinque uomini del servizio d’ordine del Pd lo accompagnano in bagno ed evitano ogni contatto con i cronisti. Nel pomeriggio tocca a Pier Luigi Bersani: le guardie del corpo diventano sei. L’unica che ne è sprovvista alla nuova Fiera di Roma è Anna Finocchiaro e qualche parlamentare del Pd osserva malizioso: «Usa la scorta solo quando va a fare la spesa».
Il clima non è dei migliori. L’asse Letta-Bersani-Franceschini ha vinto ed è riuscito a imporre Guglielmo Epifani, ma preferisce non stappare champagne o prosecco. Meglio, molto meglio, fare finta di niente. E non dire che i tre che non hanno vinto niente portano nomi e cognomi di peso in quel partito: Matteo Renzi, Massimo D’Alema e Walter Veltroni.
Nella grande guerra che si è aperta da qualche giorno in qua — meglio far sopravvivere il governo o il partito — hanno vinto i sostenitori della prima ipotesi. Non importa, poi, se l’applauso al presidente del Consiglio è fiacco o se Beppe Fioroni a metà  mattinata osserva: «Enrico tarda a venire perché qui non lo accoglieranno bene: ancora non hanno capito — o fanno finta di non aver capito — che governiamo con il Pdl». Quello che è stato deciso è deciso: i bersaniani non verranno cacciati, i franceschiniani avranno un posto al caldo, i lettiani seguiranno il loro premier che, nonostante i boatos, è bene intenzionato a ricandidarsi alla premiership se questa avventura governativa gli andrà  bene. Perché no, del resto?
Poi c’è Epifani. Letta, Franceschini e Bersani appuntano le loro speranze su di lui. È il miglior alleato del governo e ha sostenuto il segretario fino in fondo: non sarà  certo il successore di Cofferati a fare piazza pulita della classe dirigente del Pd che ha fallito. Non solo: l’ex leader della Cgil non ha intenzione alcuna di fare il Re Travicello. Traghetterà  il partito sino al congresso e oltre. Nel senso che si ricandiderà . D’altra parte non si può chiedere a uno come lui, con la sua storia, il suo passato, la sua leadership sindacale, di limitarsi a fare il Caronte tra un tracollo del Pd e un congresso del medesimo. Ci mancherebbe altro. E infatti nessuno glielo chiede. Anzi, Marina Sereni, alla vigilia dell’assemblea, nella riunione della corrente dell’«Area dem» che fa capo a Franceschini e Fassino, precisa: «Nessuno gli chieda una cosa del genere». E nessuno, effettivamente, ha posto a Epifani questo interrogativo. Anche perché la risposta sarebbe stata ovvia. Per quale ragione Epifani dovrebbe correre con lo svantaggio incorporato? Proprio lui che, venendo dai socialisti, può chiudere l’eterna querelle del Partito democratico tra ex comunisti ed ex democristiani?
In sala, i tre che non hanno vinto, ma nemmeno perso, neanche si parlano. D’Alema arriva tardi, dalla Spagna, si siede in prima fila, si guarda in giro e confida ai pochi a cui rivolge la parola: «Prima o poi dovremo affrontare anche il tema del perché abbiamo perso. Bisognerà  fare un esame di quello che è successo, perché fare finta di niente sarebbe un suicidio». E ancora, sempre D’Alema, all’orecchio di un amico: «Bisognerà  ridare la parola ai cittadini in tempi non lunghi». Guarda caso, è lo stesso convincimento di Walter Veltroni. L’ex segretario del Pd sfiora l’assemblea nazionale: arriva presto e se ne va ancora prima, senza aver proferito verbo dal palco.
Matteo Renzi, invece, rompe un antico — consolidato — tabù decidendo di parlare. Un discorso per dimostrare che anche lui, quello accusato di rilasciare interviste e di non parlare mai nelle sedi del partito, c’è e non disdegna il Pd. «Gliele ho dette tutte, ma senza acrimonia», osserva subito dopo il sindaco rottamatore. Che ora deve affrontare la sua possibile e futuribile rottamazione. «Io di Letta mi fido», continua a dire. I due hanno siglato un patto generazionale. Ma è ovvio che Renzi non può fare affidamento sul fatto che il premier decida di non ricandidarsi alle prossime elezioni. C’è chi, tra i renziani, spera ancora che il primo cittadino di Firenze si prenda il mese che resta per pensarci e poi si candidi direttamente alla segreteria. E chi invece esclude questa prospettiva. «Ha già  visto che fine ha fatto Walter, che si è fatto maciullare dal Pd». Lui sembra comunque non nutrire dubbi: «Mi ricandido a sindaco di Firenze e continuerò a fare questo lavoro se i fiorentini mi diranno di si». E fa spallucce quando gli si dice che questo governo potrebbe durare fino al 2015: «E dov’è il problema? Io voglio fare il sindaco, non il segretario».
Poi però, quando le mille telecamere che lo inseguono si dileguano e lui resta tra pochi amici, spiega: «Questo governo non è quello che volevamo, come ha ammesso anche Letta. Ma è meglio tenerselo per le cose necessarie e urgenti che ci sono da fare. Deve avviare la soluzione di problemi importanti che assillano il Paese, dopodiché passerà  la mano e si tornerà  a una dialettica normale tra i poli. Insomma, se dopo i 18 mesi indicati da Letta, verranno fatte le riforme che dovevamo fare sarà  un fatto importante, poi ognuno tornerà  alla sua esperienza politica, noi e loro». Renzi sembra sicuro che questo sia l’epilogo. Alcuni dei suoi sostenitori, però, sembrano più pessimisti, e temono che lasciando il partito ad altri, il sindaco perda anche la strada della premiership.


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