Storie di burocrati inamovibili che contano più di un ministro

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ROMA — I ministri cambiano e i burocrati restano? Una volta tanto questa regola sclerotica della nostra pubblica amministrazione è stata violata. Dopo 12 anni trascorsi senza soluzione di continuità  come capo di gabinetto dei ministeri mentre gli inquilini si avvicendavano fra destra e sinistra e governi tecnici, Vincenzo Fortunato ha lasciato. La successione è cominciata nel 2001: Giulio Tremonti, Domenico Siniscalco, Tremonti, Antonio Di Pietro, Tremonti, Mario Monti, Vittorio Grilli. Magistrato ordinario, amministrativo e tributario, rettore della scuola superiore delle Finanze, membro del consiglio di giustizia amministrativa… Nessuno può vantare un cursus honorum così scintillante.
Resta comunque nei paraggi con un incarico statale rilevantissimo. Lui, che era a capo dell’Economia all’epoca delle controverse cartolarizzazioni è stato nominato presidente della società  per la cessione del patrimonio pubblico. Nei ritagli di tempo potrà  dedicarsi a Studiare sviluppo, una curiosa società  interamente posseduta dal ministero dell’Economia, del cui collegio sindacale è presidente da settembre 2012. Ed è inevitabile, vista la sua esperienza, che siano circolate anche fantasiose voci di altre prestigiose incombenze, quale quella di commissario della Stretto di Messina spa. In ogni caso al ministero dell’Economia si è chiusa un’epoca. Il ministro Fabrizio Saccomanni ha deciso di dare il suo posto a un dirigente della Camera: Daniele Cabras, figlio di Paolo Cabras, ex parlamentare Dc di lungo corso. A via XX Settembre lo presentano come un elemento di forte rinnovamento. Ma chi lo interpreta come un segnale d’indebolimento di quella burocrazia che ha nelle mani da decenni le nostre amministrazioni, si sbaglia di grosso.
Non è solo il caso dei direttori generali dei ministeri, la cui inamovibilità  è stata giustamente identificata su queste colonne da Francesco Giavazzi come uno dei freni più grossi ai cambiamenti. E che potrebbe essere intaccata in uno dei suoi pilastri, se sulla poltrona di Ragioniere generale dello Stato arrivasse ora dalla Banca d’Italia Daniele Franco. Parliamo soprattutto di quegli «esterni», quasi sempre gli stessi, che rappresentano ormai il vero cuore del potere governativo: i capi dei gabinetti e degli uffici legislativi, ruoli tradizionalmente occupati da magistrati amministrativi, giudici contabili, avvocati dello Stato. Spesso esponenti di circuiti relazionali solidissimi e autoreferenziali, così potenti da sovrapporsi talvolta alla stessa politica.
Fino a qualche settimana fa sottosegretario alla presidenza del Consiglio era Antonio Catricalà , consigliere di Stato, ex segretario generale di Palazzo Chigi e per quasi sette anni capo dell’Antitrust: ora è viceministro allo Sviluppo economico. Il suo posto al fianco del premier Enrico Letta è stato preso da un altro consigliere di Stato, Filippo Patroni Griffi, ex ministro della Funzione pubblica. Che ha collocato sulla delicata poltrona di segretario generale della presidenza il proprio ex capo di gabinetto ministeriale Roberto Garofoli. Consigliere di Stato anch’egli, come del resto Carlo Deodato, nominato responsabile dell’ufficio legislativo di palazzo Chigi al posto di un altro consigliere di Stato, Carlo Zucchelli. E consiglieri di Stato sono pure Donato Marra e Giancarlo Montedoro, confermati rispettivamente segretario generale e consigliere giuridico del Quirinale.
I gabinetti dei ministeri, poi, continuano a essere la destinazione naturale dei magistrati amministrativi. Allo Sviluppo economico di Flavio Zanonato è tornato Goffredo Zaccardi, attuale presidente del Tar Molise che già  aveva ricoperto lo stesso incarico con Pier Luigi Bersani. Mentre perfino una marziana qual è la campionessa mondiale e olimpica di kayak Josefa Idem, ministro dello Sport, si è dovuta affidare a un giudice del Tar: Germana Panzironi.
Dov’è il problema, vi chiederete? E’ un lavoro difficile, meglio affidarlo a persone esperte e capaci. E queste certamente lo sono. La prospettiva però cambia decisamente osservando il modo in cui si fanno le leggi. Un esempio? Per attivare il decreto sviluppo servivano 71 fra decreti, regolamenti e provvedimenti amministrativi vari. Leggi come questa, approvate dal Parlamento, sarebbero dunque cornici vuote se non venissero poi riempite da norme successive. E quelle norme, solo apparentemente tecniche, vengono definite dagli «esterni inamovibili» attraverso gli uffici legislativi ministeriali. Si è arrivati al punto, come ha sottolineato in un recente articolo il Giornale di Diritto amministrativo, che l’azione pubblica non dipende più tanto dal Parlamento quanto dai burocrati, dato che la messa in pratica delle sue decisioni viene sempre più frequentemente rimandata a provvedimenti elaborati in seguito dai gabinetti dei ministeri. Diranno che l’inflazione dei decreti attuativi, caratteristica tutta italiana, dipende dalla qualità  scadente e approssimativa delle leggi. C’è anche questo. Ma il risultato è che pezzi importanti del potere decisionale si sono trasferiti dalle Camere democraticamente elette alle burocrazie cui si affidano i ministri.


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