Il Pakistan a un voto storico

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SULLA STRADA PER ABBOTTABAD — Osama chi? Dopo la casa, hanno raso al suolo la memoria. Il maggio di due anni fa c’era il mondo, su e giù per questo asfalto che portava all’ultimo rifugio di Bin Laden. Ora ci trovi solo un ufficiale di polizia che, venti chilometri e diciotto check-point fuori Islamabad, blocca per mezz’ora il traffico, lui a scostarsi per telefonare e noi a sudare fra gli scarichi neri dei pullman Niazi Express e gli eunuchi che vendono fazzoletti, finché non decide di tornare sui suoi passi, restituirci l’inutile pass di plastica appena rilasciato dal ministero dell’Informazione, scusarsi quasi: «Sir, serve un’autorizzazione speciale del governo per andare ad Abbottabad. E poi, sir, là  non c’è più niente…».
Bin Laden non c’è più: nei due mesi d’una delle campagne elettorali più spietate che il Pakistan ricordi — 110 morti e 1.185 attacchi armati, i talebani che promettono altri kamikaze, i candidati laici costretti a nascondersi, perfino il figlio dell’ex premier Gilani rapito ieri mattina mentre comiziava — in ore di talk show sulla minaccia terroristica e fra milioni d’appelli contro la violenza, non uno che ancora si chieda, e chieda al governo, che cosa ci facesse ad Abbottabad il terrorista più ricercato del mondo. Morto e cancellato: «Osama interessa all’estero, non ai pakistani — spiega Rahimullah Yusufzai, l’ultimo giornalista che riuscì a intervistarlo —. Appartiene al passato, come Benazir Bhutto e i troppi simboli che ci portiamo dietro. Queste elezioni sono diverse perché non si votano i fantasmi».
Si vota domani. Ed è una serie di prime volte: in 65 anni di Pakistan e di golpe, il primo governo civile che finisce i cinque anni di mandato e si rimette al giudizio popolare; le prime elezioni che non vedono i generali sulla scena; le aree tribali, dove mogli e figlie di solito non osano nemmeno uscire di casa, figurarsi votare, che stavolta hanno in lista qualche donna; pure un paio di transessuali che si candidano a Karachi, sfidando gl’islamici più duri… Per non dire dei grandi e piccoli assenti: il boicottaggio elettorale proclamato dall’eterno generalissimo Pervez Musharraf, rientrato dall’esilio di Dubai e subito arrestato; i comizi via Skype del figlioletto della Bhutto, Bilawal, presidente del partito al governo (Ppp) e primogenito del presidente Zardari, spedito a Dubai in grande fretta pochi giorni prima che un sicario in motorino ammazzasse chi indagava sull’assassinio di mamma Benazir.
Sono novità  che altrove non sarebbero notizia, già  molto in un Paese congelato da caste religiose, etnie inferocite e clan familiari, paralizzato dalla paura di trentacinque ammazzati alla settimana, fermato diciassette ore al giorno dai blackout elettrici e tutto l’anno da un debito greco, monitorato dagli osservatori internazionali che s’aspettano brogli e scambi (25 euro a scheda), dove i fondamentalisti si danno battaglia anche sulla toponomastica (accade a Lahore: scontri e feriti perché s’è dedicata una rotonda a un simbolo delle rivolte coloniali e non a un eroe islamico).
Qualche diplomatico cita l’Italia, quando analizza le forze in campo, i protagonisti sempre gli stessi e lo scenario che si potrebbe creare: tre partiti uguali e contrari – la favorita Lega musulmana del wahabita Nawaz Sharif, non invisa ai talebani, ora all’opposizione; il Ppp ora al governo, orfano dei Bhutto e senza un vero leader, troppo chiacchierato Zardari e troppo «british» il giovane Bilawal; l’antisistema Imran Khan, l’ex playboy delle notti londinesi, feroce oppositore dei clan e dei costi della politica, precipitato da un montacarichi durante un comizio e, dopo gli spot girati dal letto d’ospedale, salito nei sondaggi – tre leader costretti al puzzle delle coalizioni e a far fronte contro crisi e attentati.
«Molti sospettano che i giochi siano fatti – dice Bushra Gohar, la leader del piccolo partito liberale Anp, 700 attivisti sterminati negli attacchi fondamentalisti – avremo uno scambio alla pari: Zardari ancora presidente e Nawaz premier. Ma il problema resta la violenza sullo sfondo, la politica ambigua verso i talebani: anche Imran Khan, così filoccidentale a parole, cerca un dialogo con loro. Dicono che questo sarà  il primo voto veramente democratico. Ma di che democrazia si parla? Hanno provato a uccidermi tre volte. Ho fatto campagna elettorale solo in tv o in casa di qualche amico. E mia figlia, per non piangerla, l’ho mandata all’estero».


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