Benetton e il crollo in Bangladesh “In quella fabbrica nostri prodotti”
ROMA — Dopo 15 giorni di accuse, di smentite affrettate e successive ammissioni, ieri è intervenuto l’ad del gruppo Benetton per chiarire il ruolo dell’azienda tessile italiana nel massacro di Dacca, l’edificio crollato il 24 aprile che ha divorato e ucciso almeno 948 persone nella capitale del Bangladesh. «Uno dei nostri fornitori diretti in India aveva subappaltato due ordini» a una fabbrica di camicie nel Rana Plaza, ha confermato Biagio Chiarolanza all’Huffington Post Usa, che gli ha dedicato un titolo tagliente: “Sangue sulle camicie. Il Ceo di Benetton ammette i legami del gruppo con la tragedia”.
Chiarolanza spiega che erano due ordini “piccoli”, 200mila capi, commissionati a dicembre e a gennaio, e che prima del crollo la New Wave Style era stata eliminata dai possibili fornitori perché non rispettava «gli standard elevati richiesti ». In un primo momento, quando si diffuse la notizia che c’era anche Benetton tra le multinazionali che appaltavano lavoro agli opifici tessili stipati nel Rana Plaza, il gruppo smentì: «Nessuna delle aziende coinvolte sono fornitrici di Benetton o dei suoi brand». Ma alle notizie del Wall Street Journal si aggiunsero le foto della Ap, rimbalzate su internet, in cui l’etichetta “Benetton” appare su una maglia tra i calcinacci, e il nome su un foglio di ordinativi. Il 30 l’azienda ammise con un tweet: «Abbiamo ricostruito che uno dei nostri fornitori ha occasionalmente subappaltato ordini a un’azienda nell’edificio».
Chiarolanza dice che ora Benetton esaminerà anche l’integrità degli stabili ma non lascerà il Bangladesh, uno dei 120 paesi nei quali ha 700 fornitori. «Possiamo aiutarli a migliorare le loro condizioni». Ma se per Benetton «un salario basso è meglio di nessun salario », il Worker Rights Consortium accusa: stipendi da 40 dollari al mese «sono un atto di crudeltà ». E mercoledì notte un rogo in una fabbrica tessile a Dacca ha fatto altri otto morti.
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