Gli esodati del potere

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TRA rabbia e malinconia, emicrania, nausea e rassegnazione, magari anche sollievo, e comunque indifferenza, vuoi simulata che dissimulata, un’intera classe dirigente resta esclusa dal potere nel repulisti non solo generazionale del governo Letta.
Ex presidenti del Consiglio come Monti e D’Alema; ex presidenti della Camera come Violante o del Senato come Schifani; e Brunetta, vittime designata dell’ordalia toto-ministeriale; e Cicchitto, che un po’ ci sperava, e Finocchiaro, che si poteva, si doveva risarcire, e chissà  quanti altri di cui non si aveva nozione, né mai se ne avrà , a questo punto.
Niente, il treno ormai è passato, i veti hanno svolto il loro compito, la crudele roulette dell’assegnazione delle cariche ha imbastito i suoi nuovi giochi, non c’è politico avveduto che non capisca che una fase, più che chiudersi, s’è drammaticamente consumata; ed è tutto un ciclo di speranze e ricordi, una generazione di cinquanta e sessantenni, una scuola di politica, uno stile, un’abitudine e una prosopopea, pure lei, per forza di cose, che in ogni caso stanno per depositarsi nell’umile serbatoio degli archivi, o banche dati elettroniche che siano.
Giuliano Amato manca stavolta un traguardo eccezionale, all’altezza di Andreotti. Prima avversario e poi prescelto da Craxi per assisterlo come sottosegretario a Palazzo Chigi tra il 1983 e il 1987; chiamato a governare in prima persona e in veste semi-tecnica mentre crollava la Prima Repubblica, 1992; quindi richiamato alla testa di un governo di fine legislatura per mettere una pezza alle lacerazioni del centrosinistra nel nuovo millennio.
Nel frattempo, “puntuale Jack in the box nelle curatele fallimentari governative” (Franco Cordero) s’era girato i ministeri chiave, dal Tesoro all’ Interno, come se possedesse, meglio di chiunque altro, la più impeccabile Grazia di Stato. Per un intenditore, per un collezionista non si dirà  qui ‘di poltrone’ come il Dottor Sottile, tornare come tutor del giovane Letta sarebbe stata piuttosto una gloria da dedicare alla sua stessa biografia, prima che alle sue indubbie capacità .
Ma così è la vita: incredibile, però in questi casi peggio che vera. ‘No, guarda, c’è un problema, cerca di capire’, gli avranno detto: in questi casi chi è dentro sa inventare mille scuse, perfino plausibili, per levarsi il pensiero.
Chi è fuori, di solito, a sua volta ha già  compiuto la triste incombenza ai danni di qualcun altro, con il che tutto torna, in fondo, ma alla fine è lo zero che si prende il banco.
O il posto migliore – per rimanere alla indispensabile materialità  del comando. Perciò di D’Alema, così strenuo e tignoso combattente da attirarsi ostilità  gratuite, se non addirittura vane, si tramanda un motto, chissà  da chi preso in prestito (Churchill? Napoleone?) che un pochino aiuta a capire il suo approccio in quest’ultima distribuzione di ministeri: ‘Il capotavola è dove siedo io’.
Nessuno nega che sia stato un buon titolare degli Esteri, e lì infatti l’accreditavano a tutto spiano. Viaggi, missioni, reti di relazioni, la diplomazia come la quintessenza del grande gioco sulla più vasta scacchiera del mondo. Addio.
Addio pure a Monti – e perdoni Manzoni il corrivo escamotage da quinta ginnasio! – che comunque al momento
ha fatto quello che doveva per poi esagerare, mosso da da non si capisce bene che, e dall’indispensabile alterigia professorale è caduto sui cagnolini elettorali, i brindisi a birra, i Pulcinella in braccio, i “sugnu siciliano”, ma per cortesia, e quanto è triste il passo di chi, cresciuto nella sobrietà , se ne allontana, addio.
Del resto Schifani, che nell’altro campo ambiva a un peso degno del suo precedente, non dirà  mai: ‘Non mi meritavano’. Però tutto adesso si fa lo stesso più difficile per lui. Nel Pdl, agli occhi di Berlusconi e soprattutto in Sicilia, dove il potere si pesa più che altrove, e una mancata poltrona attira bisbigli, occhiate compassionevoli, addirittura ipocrite condoglianze. Resta, è vero, “semplice” presidente dei senatori, sia pure con un ampio e magnifico ufficio all’ultimo piano di Palazzo Giustiniani, con uso terrazza. Ma in questo genere di faccende non c’è premio di consolazione.
Nemmeno per Luciano Violante, che da bestia nera del Cavaliere nell’arco di un ventennio aveva finito per assomigliare a un potenziale alleato, meglio di tanti altri, e le cui quotazioni si erano alzate fino a segnalarsi come un Saggio con tanto di bollo del Quirinale. Ma anche lui, più che la sua storia politica o le singole posizioni, paga qualcosa di più vasto e sfuggente, una stanchezza nel pubblico, un logoramento che si fa strada proprio nel momento in cui partono esigenze di novità  – che sia una moda gattopardesca o un fenomeno più profondo è presto per dire.
E sarà  anche perché le cose si sono messe davvero male, ma nessuno di loro, né D’Alema, né Amato, né Violante, né Monti, né Schifani, né Finocchiaro, troppo presente ieri e troppo risentita oggi, riesce più a tranquillizzare se non i loro più accesi fan. E si rende conto Brunetta, e un po’ anche Cicchitto, dell’usura che crea ormai il loro impeto tele- gladiatorio? Gli dice niente il risuonare di un aggettivo improvvisamente contagioso e sintomatico: “divisivo”.
Sembra che sia lo stesso potere a chiedere di mutare volto: non vuole più mostrarsi senile e insieme bambinesco, ostentato e furbetto, aggressivo e al tempo stesso buffone. Sembra d’avvertire in giro un’ansia di dignità , che vuol dire tutto e niente. Però se qualcuno ogni tanto resta a casa, pazienza. Magari per tanti di loro sarà  anche una vita migliore, né per gli altri mancherà  tempo e modo di rimpiangerli.


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