Lite sui nomi, rischio caos E interviene Napolitano

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È l’alfa e l’omega del governo, il lord protettore di un  progetto politico sul quale aveva chiesto e ottenuto garanzie prima di accettare la ricandidatura alla presidenza della Repubblica. Perciò, ieri, nel momento più difficile della trattativa Giorgio Napolitano è intervenuto prepotentemente, per evitare  che il negoziato si avvitasse a un passo dall’accordo.
Non era più tempo di moral suasion e non lo è stato: quando nel tardo pomeriggio ha ricevuto Angelino Alfano e Gianni Letta, il capo dello Stato — con toni aspri — ha posto ai suoi interlocutori richieste ultimative, ha chiesto conto di ciò che doveva già  esser stabilito e che invece sembrava sul punto di saltare. «Qui salta tutto», lo aveva avvisato Enrico Letta. Perciò Napolitano ha pronunciato e preteso parole chiare, le stesse che fino a due giorni aveva ascoltato da Silvio Berlusconi. Sta in quel colloquio riservato al Quirinale il passaggio più importante di una giornata che doveva sciogliere gli ultimi nodi per la formazione del governo e che invece si stava pericolosamente ingarbugliando.
Il silenzio non è un buon segno in politica, quando è in corso una trattativa. Perciò nel primo pomeriggio il premier incaricato aveva iniziato ad allarmarsi, perché l’assenza di comunicazioni dal vertice del Pdl non trasmetteva calma. Difatti lo squillo del telefono si tramutava subito in uno sparo: «Se c’è Massimo D’Alema, al governo dev’esserci anche Silvio Berlusconi», lo avvertiva Angelino Alfano. Il segretario del Pdl, che Enrico Letta vorrebbe al proprio fianco nel governo, d’un tratto diventava ambasciatore di guerra. A preoccuparlo non era tanto il contenuto del messaggio, il principio della «parità  di trattamento» che si portava appresso, l’idea che «se nella vostra delegazione c’è spazio per un ex premier, deve esserci anche per noi». Su questo il vice segretario del Pd conveniva, siccome «o tutti dentro o tutti fuori».
L’ansia piuttosto era alimentata da quello che non gli veniva detto, dall’immagine riflessa del dubbio amletico che aveva colto il Cavaliere. Lo statista di rientro dagli Stati Uniti, di colpo era stato catapultato nel ruolo di imputato presso il tribunale di Milano dall’avvocato di fiducia Niccolò Ghedini, che lo aveva avvolto nel cupo scenario dei processi e delle loro scadenze, intrecciate con i tempi del governo e della legislatura, con il rischio che le sentenze di primo e secondo grado a cui deve andare incontro, si trasformassero in una condanna politica definitiva: «Per questo, presidente, non verrò alla riunione del partito. Non voglio assistere alla fine politica di Berlusconi».
Così il capo del centrodestra si era presentato al vertice senza più le certezze: «Vorrei sapere da voi se dobbiamo entrare nel governo o fare saltar tutto». Era stato come aprire il vaso di Pandora, perché i timori di quanti sarebbero esclusi dalla lista dei ministri si univano alle perplessità  di quanti invece quella lista vorrebbero stracciarla. Denis Verdini aveva già  preparato il solito report per il Cavaliere, zeppo di critiche sulla gestione della trattativa, portata avanti in modo troppo accondiscendente, senza autentici affidavit, con l’incubo ventilato da Ghedini che riappariva in quella nota: le condanne, la perdita di potere e di presa sul governo e sul partito, il rischio di un cambio in corsa della maggioranza e il definitivo isolamento.
Berlusconi, avvertendo la morsa giudiziaria, si era rivolto con toni accorati al sinedrio del partito, e c’è un motivo se Michaela Biancofiore gridava da fuori «lasciatelo libero di decidereeee». Dentro, intanto, Fabrizio Cicchitto si scagliava contro Ghedini, che nel frattempo si era presentato: «Sei un imbecille». E c’era voluto del tempo prima che il leader si reimpadronisse della riunione e di se stesso. Ma i veti dei Democratici sui nomi del Pdl avevano versato benzina sul fuoco del negoziato. «La situazione si sta ingarbugliando», diceva Dario Franceschini a un dirigente centrista: «Lo dicevo che, con questa storia di D’Alema, si finiva male».
Ma non era solo il «caso D’Alema» ad aizzare la rivolta, che saliva nel Pd — in quelle stesse ore — per via dello schema imposto da Enrico Letta in perfetta sintonia con Napolitano: un esecutivo formato da 12 politici e sei tecnici posti nei dicasteri chiave, cioè un vero gabinetto «del presidente», con i partiti ai margini a fare giusto da corona se non da tappezzeria. «Allora il governo se lo vota il Quirinale», era stata la risposta fatta pervenire al premier incaricato dal suo stesso partito. In soccorso al prescelto, il capo dello Stato aveva già  approntato la contromossa: in caso di stallo, Enrico Letta avrebbe dovuto presentare il governo a scatola chiusa, chiedendo ai partiti di prendere o lasciare.
La prova di forza decisa dal presidente della Repubblica sul Pd, si combinava con l’offensiva sul centrodestra, con la decisione di chiamare al Colle Alfano e Letta (Gianni) per stringere d’assedio il Cavaliere. Anche perché Berlusconi non aveva molti margini, semmai li avesse avuti. Ne erano consci i dirigenti del Pdl, che al vertice gli avevano più volte posto la stessa domanda: «Presidente, ci chiedi un parere, ma noi non sappiamo cosa hai concordato con Napolitano». «Nulla, non ho concordato nulla», aveva risposto il leader. Nessuno però gli aveva creduto. Rientrato dal colloquio con il capo dello Stato, Alfano era stato chiamato a sé dal Cavaliere, che già  prima lo aveva indicato come capo della delegazione nel governo, «dove dobbiamo esserci con giovani preparati». «Non ho difficoltà  ad andarci», aveva commentato il segretario, che tuttavia si era interrogato sulla propria sorte, qualora l’esecutivo avesse vita breve. Nel faccia a faccia Berlusconi l’ha convinto, «farò quello che lei vuole», lo aveva salutato «Angelino» prima di congedarsi e di andare all’appuntamento con Enrico Letta a Montecitorio. Anche lì Alfano non era andato solo, con lui c’era Gianni Letta per la trattativa.
Lo scontro sulla composizione del governo non si era ancora sedato, perché dal Pd giungeva eco che «D’Alema continua a insistere». Ma l’insistenza si stava andando a infrangere sugli scogli del Quirinale, dove il capo dello Stato aveva posto i frangiflutti. «Nel governo non devono entrare personalità  divisive», aveva preannunciato nei giorni scorsi Napolitano, per poi ripeterlo all’ex compagno di partito: «Bisogna procedere con il ricambio generazionale». Così l’onda lunga del primo premier post-comunista perdeva forza, fino quasi a spiaggiarsi quando Mario Monti si faceva ufficialmente da parte, esortando «leader politici e senior» al passo indietro.
Eppure la sorte non sembra accomunare tutti i veterani, se è vero che Giuliano Amato ieri sera sembrava resistere al tempo e alle intemperie: «Piuttosto che uno come Fabrizio Saccomanni all’Economia, meglio lui», aveva ripetuto Berlusconi, sebbene Napolitano insista perché a via XX Settembre sieda l’uomo di Bankitalia. Si vedrà . Il Cavaliere che si fa «concavo e convesso» sostiene che per sé non chiede nulla, «non ho ambizione di entrare al governo». Semmai di assumere la presidenza della Convenzione per le riforme, e magari il controllo di alcuni dicasteri «politici»: «Perché se Alfano entra, deve essere vice premier e/o deve avere delle deleghe pesanti». Se non la Farnesina, il Viminale.
Con questa investitura il segretario del Pdl si presentava all’appuntamento da Enrico Letta, sul cui tavolo s’impilavano le liste con i desiderata dei partiti. Berlusconi non aveva certo bisogno di perorare la causa di «Angelino», che il premier incaricato vorrebbe al governo «come segretario del Pdl». Piuttosto, quando il Cavaliere ha chiamato al telefono il giovane Letta voleva insistere per gli altri candidati del Pdl, che ieri sera erano sei «trattabili». «Voglio gente che creda nel governo», si è sentito rispondere il leader del Pdl. Entrambi soddisfatti dell’istruttoria definita «costruttiva», hanno convenuto di risentirsi oggi.
Il Quirinale — dove Letta è tornato in serata — è osservatorio ideale per monitorare le manovre di Palazzo e per interpretare le rassicurazioni del Cavaliere: «Vogliamo superare tutti gli ostacoli. Ma dobbiamo fare bene, non fare in fretta». Napolitano chiede tutte e due le cose, è lui l’alfa e l’omega dell’esecutivo. Perciò i dannati della trattativa sono rimasti imprigionati nelle riunioni notturne, dalle quali è sbucato un Berlusconi rasserenato: «Sono ottimista», ha commentato. Certo la fase resta «magmatica», per dirla con Alfano, ma in fondo è sempre così quando si deve chiudere un qualunque negoziato di governo. E questo non è un governo qualunque.
Francesco Verderami


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