Napolitano scuote i partiti: riforme e dialogo

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ROMA — Ha davanti a sé gli eserciti in rotta della Seconda Repubblica, con qualche capitano che è stato appena degradato e altri condottieri che impugnano bastoni del comando ormai corrosi. E li vede applaudire le sanzioni che infligge loro, recitando un’aspra sentenza la cui lettura si trascina per 36 lunghi minuti. Certo, dinanzi a lui ci sono anche i folti rincalzi che rivendicano d’essere gli anticipatori della Terza Repubblica, le truppe del Movimento 5 Stelle. Ma quelli stanno fermi come statue e ovviamente non battono le mani, perché si sentono innocenti, estranei, sopra a tutto (e dunque dicono di «non accettare lezioni»).
È come se ci fosse una liberatoria spinta autopunitiva, nell’atteggiamento con cui i membri del Parlamento, in piedi come soldatini, acclamano i rimproveri per l’«impotenza», «l’inconcludenza», «le omissioni» (e indica come la più «imperdonabile» la fallita riforma elettorale), «i guasti», «le chiusure», «le sordità », «i tatticismi» e i tanti colpevoli «ritardi» che Giorgio Napolitano imputa loro, nel messaggio d’insediamento. 
Aveva definito «surreale» la fine del suo primo mandato, e di sicuro appare surreale l’inizio del secondo. La rielezione, evento senza precedenti nella nostra storia repubblicana, gli attribuisce — oggettivamente — un’energia istituzionale enorme, che gli permette di mettere i partiti con le spalle al muro. E mentre lui da adesso si carica sulle spalle una nuova e davvero molto pesante «responsabilità », inchioda loro alle proprie. Senza più alibi. Senza sconti.
«Si è schiusa una finestra per tempi eccezionali», aveva osservato giorni fa Michele Ainis sul Corriere. Napolitano indirettamente lo cita, quando spiega «il rischio», anzi, «l’emergenza che l’Italia sta vivendo» e che i leader di un larghissimo arco delle forze politiche gli hanno rappresentato sabato, salendo al Quirinale con la richiesta di accettare la rielezione. Lo ha fatto e ora eccoli incassare, con trenta ovazioni e in una sorta di spirito di espiazione, lo choc salutare del suo discorso d’investitura.
Il messaggio, 26 cartelle che ha scritto in solitudine domenica e limato ieri mattina, segna anche un eclatante cambio linguistico, per questo presidente. Perché è secco e diretto, pietroso, carico di allarmi e critiche, quasi del tutto privo dei suoi accorati toni d’appello. Declinato ieri su un unico tempo verbale, l’imperativo, come evidentemente gli serviva dovendo intimare a un Parlamento nel marasma un accordo non più rinviabile, nell’interesse del Paese.
Viene in mente quando Cossiga, dopo aver picconato per mesi i partiti (e il suo in particolare), sbalordì in diretta tv gli italiani con un messaggio di fine anno 1991 dominato da un silenzio bisbetico: «Il dovere della prudenza sembra consigliare di non dire quello che in quanto a dovere di sincerità  si dovrebbe dire… tanti auguri a tutti». 
Aveva taciuto «per carità  di patria», raccontò poi. Per la stessa carità  di patria Napolitano non si fa invece remore di elencare gli errori di una classe politica che si è dimostrata «sorda» a qualsiasi richiamo. Suo e soprattutto della gente comune, frustratissima. Per cui adesso i ripetuti applausi dell’aula rischiano in realtà  di mimetizzare una forma di «autoindulgenza» che lui censura subito, a priori.
Chiaro che il discorso del capo dello Stato non può essere ridotto essere soltanto a un destrutturante j’accuse. Sì, nel descrivere «il drammatico allarme» e le «acute difficoltà » del sistema politico-istituzionale, Napolitano addita anche i danni prodotti da «campagne d’opinione demolitorie e distruttive». E sì, non perdona gli sbagli di valutazione commessi da chi (ossia i vertici del partito democratico), dopo una gara elettorale accanita e sul filo del rasoio per conquistare l’abnorme premio di maggioranza» del Porcellum, ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento», con il risultato dello stallo attuale. E ancora, sì, si rivela accusatorio assumendosi «il dovere di essere franco», quando lancia il più minaccioso avvertimento di ieri: «Se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità  come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese». Traducendo: se i partiti continueranno a ignorare — come hanno sempre fatto nell’ultimo anno — i suoi «sforzi di persuasione» sulla riforma elettorale e non lo metteranno in grado di far nascere un esecutivo, forse più che ricorrere allo scioglimento delle Camere (potere del quale ora torna a disporre), lui è pronto ad andarsene. Senza aprire paracadute a tutela di nessuno.
Naturalmente vorrebbe che la politica e i mass-media non insistessero ad almanaccare sui suoi propositi a questo riguardo. «Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera», dice. Quindi, più che il format, su cui compete ai partiti decidere, ciò che gli importa è l’accertamento dell’esistenza di una maggioranza pronta a votare la fiducia nelle due Camere. Lo impone l’articolo 94 della Costituzione, puntualizza, replicando così a quanti ancora recriminano sulla sua scelta di non dare il via libera al governo di minoranza che invocava Bersani. 
Non è quella la strada, ammonisce. Piuttosto, se si vuole «fare i conti» con il risultato delle urne, bisogna superare il pregiudizio secondo cui ogni ipotesi di convergenza dovrebbe fare «orrore». Non vanno così le cose in nessuna parte d’Europa. Dove, quando il voto consegna esiti senza vincitori, si sente il «dovere» di accordarsi per governare insieme.
Questo pertanto si dovranno adattare a fare anche le nostre forze politiche. Perché c’è una crisi dell’economia che altrimenti potrebbe sfuggire di controllo e perché c’è una drammatica «questione sociale» che preme. Problemi sui quali, precisa (entrando un po’ in medias res), un nascituro esecutivo può disporre dell’istruttoria stesa dal gruppo di «saggi» insediato da Napolitano dopo il fallimento del suo doppio giro di consultazioni. 
Non basta. Mentre pragmaticamente indica questo orizzonte di lavoro per tutti («ci ha dettato i compiti», commentano senza scandalizzarsi troppo gli esponenti dei due fronti in lotta), Napolitano riabilita il valore della politica intesa nel significato più alto e nobile, e incita i parlamentari a 5 Stelle a cercare il confronto alla Camera e al Senato, non nelle piazze. La Rete, infatti, pur senza svalutare le potenzialità  che offre, per lui non può certo sostituire i «partiti e movimenti».
Così si snodano i passaggi centrali del suo messaggio, al cospetto di un Parlamento che pare sollevato nel sentire cantarsele chiare. Passaggi nei quali il presidente a tratti si commuove, ripensando alla sua prima volta «in quest’aula, quando avevo solo 28 anni» e al senso di «missione» provato allora e mai dimenticato. «Starò al mio posto finché ne avrò le forze», assicura, alludendo agli imminenti ottantotto anni. Ora, anche senza esagerare sui suoi bioritmi in questi giorni, colpisce tutti la grinta con la quale, dopo aver lasciato Montecitorio per rientrare al Quirinale, facendo tappa a piazza Venezia si incammina lungo l’interminabile rampa di scale del Vittoriano.
Stamane Napolitano farà  un veloce giro di consultazioni per far superare ai partiti (specie al Pd, com’è evidente) le loro difficoltà  interne. Suo obiettivo, chiudere la partita formando un governo entro la settimana.
Marzio Breda


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