Fratture interne e larghe intese l’ultimo partito “impersonale” alla ricerca dell’identità  perduta

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SARà€ difficile succedere a Giorgio Napolitano. L’avevo pre-detto una settimana fa. Anche se, francamente, non pre-vedevo che Napolitano sarebbe succeduto a se stesso.
TUTTAVIA, si tratta di una soluzione coerente con il singolare modello della nostra democrazia. Un Presidenzialismo preterintenzionale. Che si è affermato senza riforme. Per inerzia e necessità . Napolitano. Non avrebbe mai voluto essere rieletto – primo caso nella nostra storia repubblicana. Ma ha dovuto arrendersi a questo stato – o meglio, Stato – di emergenza. Perché è l’unica soluzione possibile di fronte all’impossibilità  di trovare altre soluzioni. In un Parlamento che riflette e moltiplica la rappresentazione di un Paese dove si confrontano tre “grandi minoranze” politiche – e non comunicanti. Ritratto esemplare del tumultuoso declino della Seconda Repubblica. Dove, non a caso, Berlusconi ri-emerge, nonostante tutto e tutti. Perché la conosce e la controlla meglio degli altri. La Seconda Repubblica: ispirata al maggioritario e alla personalizzazione dei partiti – anzi, dai partiti personali. Oggi è senza ancore e senza timoni. Come una nave che non tiene la rotta, perché l’equipaggio è diviso in squadre che remano in direzioni diverse. Il PDL, nonostante abbia dimezzato la sua base elettorale, perdendo oltre 6 milioni di voti, rispetto alle elezioni del 2008, è riemerso dalla crisi. Perché il leader, Berlusconi, ha svolto con abilità  un ruolo di “interdizione”. Ha, cioè, impedito agli altri di intraprendere percorsi sgraditi. Gli è bastato imporre se stesso come riferimento negoziale, al tempo stesso necessario e insostenibile per gli altri. Perché, per quanto indebolito, costituisce la principale linea di frattura che attraversa la Seconda Repubblica. Grillo e il M5S: hanno selezionato candidati molto vicini al Centrosinistra. In particolare Stefano Rodotà  e lo stesso Romano Prodi. E in questo modo hanno creato serio imbarazzo al PD. Come avrebbe potuto convergere sui candidati “imposti” dal M5S, dopo la lunga e inutile ricerca di dialogo, tentata da Bersani, nelle settimane successive al voto? D’altronde, al M5S non interessa partecipare a una stabile maggioranza di governo. Semmai, impedirla. Accelerare la decomposizione della democrazia parlamentare e rappresentativa che, sempre più fragile e incerta, regola l’Italia.
Il PD, infine, si è sgranato. Per paradosso, la crisi del berlusconismo ha travolto l’opposizione alternativa prima ancora del protagonista. Un po’ come la DC e i partiti di governo, dopo la caduta del muro. Scomparsi in fretta, mentre il PCI si ri-definiva, e, per una parte, si ri-fondava. La crisi del PD, peraltro, appare particolarmente insidiosa, perché investe i principali modelli e soggetti genetici del partito. Insieme alla candidatura di Marini è stata bocciata l’idea del compromesso fra i gruppi dirigenti e le identità  dei partiti di massa della Prima Repubblica: PCI e DC. L’Ulivo dei Partiti, postcomunisti e post-democristiani, perseguito, in particolare, da Massimo D’Alema, dopo il 1994, insieme a Marini. A cui si opponeva l’idea e il progetto del Partito dell’Ulivo.
Concepito e sostenuto da Romano Prodi, insieme ad Arturo Parisi. Soggetto politico largo e inclusivo. Ma nuovo. Che echeggiasse il modello americano, maggioritario e presidenzialista. “Organizzato” intorno alle Primarie. Un’alternativa mai risolta. Riprodotta, nel 2007, dal PD, sulla spinta di Walter Veltroni. In una settimana entrambi i modelli si sono dissolti. Sconfitti, insieme ai loro leader di riferimento. Mentre si è drammatizzato il contrasto tra vecchio e nuovo. Le Primarie, invece di riassorbire queste tensioni, le hanno alimentate. Accentuando il distacco tra base e vertice, fra gruppi dirigenti, militanti ed elettori. Tutte queste differenze sono divenute fratture nel percorso che ha condotto alla scelta e alla successiva bocciatura dei candidati. Anche per l’irruzione, nella comunicazione politica, della “rete” e dei social network. Che hanno moltiplicato ed enfatizzato il dissenso reale della “base”. Perché la democrazia “immediata” della Rete, per funzionare, va compresa e regolata. Non subìta.
La base del PD, peraltro, oggi appare lacerata di fronte alle ipotesi che ispirano non solo la scelta del Presidente, ma anche la conseguente, futura maggioranza di governo. In particolare: le “larghe intese”, tra PD, PdL e Monti. Fra gli elettori del PD, infatti, solo il 7% si sente (molto o abbastanza) vicino al PdL (Sondaggio LaPolis-Università  di Urbino). Meno di uno su dieci. Mentre il peso di coloro che si sentono vicini a Scelta Civica sale al 22%. Ma, soprattutto, nel PD appare molto elevata la prossimità  al M5S (29%) e a SEL (33%). In altri termini, gli elettori del PD guardano a Sinistra e, in misura minore, al Centro. Mostrano grande attenzione per il M5S. Mentre appaiono lontani – per non dire opposti – (più del 90%) rispetto alla Destra. Anzi: a Berlusconi. Un sentimento ricambiato, simmetricamente, dagli elettori del PdL. Lontanissimi dal PD e dalla Sinistra. Cioè: dai “comunisti”.
Per questo diventa difficile imporre “larghe intese”. Soprattutto nel PD. Perché è “radicalmente” diviso. E perché nella “democrazia del pubblico” occorrono leader forti, capaci di comunicare. Con partiti al loro servizio – se non alle loro dipendenze. Ma il PD è l’unico partito “impersonale”. Privo di una leadership carismatica. Il leader più popolare, Renzi, è stato sin qui osteggiato dal gruppo dirigente. E se riuscisse effettivamente a imporsi, non è detto che manterrebbe lo stesso livello di consensi. Perché il ruolo di outsider gli ha permesso di attrarre componenti esterne al partito. Soprattutto nell’area moderata. Mentre all’interno si sono aperte nuove sfide, come quella lanciata da Fabrizio Barca. Che guarda a sinistra. Come molti elettori del PD. Attuali, delusi e potenziali.
Così, la rielezione di Napolitano alla Presidenza alla Repubblica ha offerto al PD un rimedio alla debolezza della propria leadership. Perché il Presidente, presso gli elettori del PD, è il leader maggiormente riconosciuto (con un indice di popolarità  oltre l’85%). Tuttavia, Napolitano è il Presidente della Repubblica, non del PD. Non potrà  rimediare al deficit di leadership e di identità  del partito. D’altronde, intese, per quanto larghe, intorno a governi “presidenziali”, difficilmente potranno compensare il deficit di politica che asfissia il Paese. Neppure in un presidenzialismo preterintenzionale come il nostro.


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