«Presidente, siamo colpevoli» E strappano il sì a Napolitano
ROMA — «Presidente, ci aspettiamo che lei ce le canti e ci dica che siamo tutti colpevoli perché ce lo meritiamo. Avrebbe pienamente ragione, lo sappiamo bene. Ma, premesso questo, adesso la preghiamo di fare un altro passo di generosità e di voler riconsiderare la sua indisponibilità a una nuova candidatura. Le domandiamo insomma di restare, l’Italia ha ancora bisogno di lei, un bisogno assoluto…».
È con queste parole che ieri mattina il segretario dimissionario del Partito democratico si è rivolto a Giorgio Napolitano, per chiedergli quel bis al Quirinale che lui ha escluso infinite volte. «Per motivi di anagrafe, per la fatica del ruolo e per coerenza con una regola non scritta», aveva spiegato, alludendo al fatto («non casuale») che nella storia repubblicana nessun suo predecessore è stato prima d’ora riconfermato nell’incarico. A pressarlo adesso è però un Pier Luigi Bersani che gli appare distrutto, spossato, svuotato di ogni energia come il capo dello Stato non l’ha visto mai. Soprattutto, ferito nel profondo, depresso e bisognoso di sfogarsi come si farebbe in una seduta d’autocoscienza. Certo, negli ultimi tempi ha sbagliato parecchie scelte, il leader dimezzato del Pd. Infilandosi da solo nei guai. Ma quando gli racconta quale incubo ha vissuto negli ultimi giorni, con i dirigenti del partito che alla mattina gli assicuravano che avrebbero votato compatti un nome concordato all’unanimità e alla sera tradivano clamorosamente il loro impegno, beh, il presidente si avvilisce e s’indigna lui pure.
Su questa rincorsa di ipocrisie, slealtà , atti di bullismo politico e intrighi cannibalistici che hanno portato il centrosinistra sull’orlo della dissoluzione si è dovuto arrendere Bersani. Ma non può arrendersi il Paese, paralizzato in una crisi di sistema che va comunque molto oltre i confini del Partito democratico.
Siamo in una sfera di pericolosissima sospensione, senza un governo da un paio di mesi e impotenti a eleggere un capo dello Stato all’altezza delle sfide che ci aspettano: presidente, ci ripensi… Ecco il tenore delle telefonate che tra venerdì notte e ieri mattina, dopo la bruciante bocciatura di Romano Prodi, sono arrivate a Napolitano, tormentandolo profondamente e determinando la svolta. Ed ecco perché è cominciata la processione dei capi partito (di quello del Pd e poi di Berlusconi per il Popolo della libertà , di Maroni per la Lega Nord, di Mario Monti per Scelta civica), che si sono presentati sul Colle con il cappello in mano, seguiti da una delegazione di 17 «governatori» regionali, quasi a dimostrargli che era l’Italia intera a chiedergli di rimanere al suo posto.
Qualcuno rievoca davanti a lui la drammatica elezione di Oscar Luigi Scalfaro, ventuno anni fa — votato dopo 12 interminabili giorni, al sedicesimo scrutinio, ma come una sorta di «effetto collaterale» della strage di Capaci — e gli sottolinea che «oggi lo scenario è forse addirittura peggiore di quello del ’92». Non sembra un allarme esagerato, se si considera che analoghe segnalazioni gli sono state presentate da parecchi altri interlocutori, nei giorni scorsi. In particolare da esponenti di importanti fori economici e finanziari (italiani e non solo), ma anche da chi vede come un grande rischio la deriva qualunquista e populista che sta crescendo da noi, per colpa di una politica incapace di autoriformarsi e di offrire ai cittadini risposte all’altezza della crisi.
Riflettendo su tutto questo e sull’enorme carico di aspettative che sta per caricarsi sulle spalle, con il rischio di esporsi alle incognite (e alle perfidie) di un «mercato politico» ormai prossimo a sfociare in una delegittimazione universale, a chi entra ieri mattina nel suo studio Giorgio Napolitano gira un avvertimento a doppia valenza.
Sappiate che — annuncia — in caso di rielezione, non troverete in me un deus ex machina, un demiurgo, perché il capo dello Stato non lo è e non può esserlo.
Sappiate che — aggiunge — nella situazione di eccezionale gravità che attraversiamo e per la quale potrei sentire il dovere di tornare sui miei passi e accettare la vostra proposta, dovrete essere tutti insieme a me disponibili in modo incondizionato a ricominciare a impegnarvi per il bene del Paese.
Traducendo in chiaro: nessuno si illuda che lui resti al Quirinale per sciogliere subito le Camere, come qualcuno potrebbe sperare. No, lui tenterà a ogni costo di mettere in cantiere al più presto un governo. Un governo non precario, pienamente politico. Forte e vero, «di salvezza nazionale», verrebbe da dire, per formare il quale vuole carta bianca. Non uno di quegli esecutivi di indefinita classificazione e con un orizzonte necessariamente breve (battezzati, secondo certe formule minimaliste, «di tregua», «del presidente» o «di scopo»). A disposizione sua, e delle forze politiche, c’è l’agenda messa insieme dalle commissioni di «saggi» insediate nello scetticismo iniziale dopo due infruttuose consultazioni. Un focus istruttorio che, se non ha la pretesa di essere «un programma» (dettare programmi non gli compete), può tuttavia offrire un esauriente «quadro sinottico» dei problemi da affrontare e sui quali non pare un’utopia costruire delle convergenze politiche.
Questo era il suo «lascito», alla vigilia della fine dell’incarico e mentre aveva già da tempo fatto traslocare carte e libri all’ufficio al quarto piano di Palazzo Giustiniani dove da maggio lo avrebbe aspettato il meno defatigante lavoro di senatore a vita. Marcia indietro per i facchini del Colle e per lui stesso, quindi. Marcia indietro condizionata a una precisa assunzione di responsabilità che i leader dei partiti gli hanno garantito, dopo aver ascoltato le sue obiezioni severe. Più o meno di questo tenore. Vi siete finalmente accorti che bisogna salvare il Paese e chiedete il mio impegno? D’accordo, ma il vostro, di impegno? L’avete compreso dove vi ha portato il gioco di veti e pregiudiziali in cui vi siete lasciati inghiottire? Vi sembra che abbia senso il lessico mediatico che si è imposto oggi, che marchia come un insopportabile «inciucio» qualsiasi accordo, parola della quale mostrate tutti di avere paura?
Su questi interrogativi è nata la sua plebiscitaria e storica rielezione, accolta con vastissimi consensi anche fuori dal Parlamento. Ricevendo in serata la comunicazione formale dai presidenti di Camera e Senato, il riconfermato presidente annuncia che domani avrà «modo di dire i termini entro i quali ho accolto, in assoluta limpidezza, l’appello rivoltomi». E fa sapere anche che preciserà «come intende attenersi all’esercizio delle funzioni istituzionali» attribuitegli. Un punto non trascurabile, questo. Perché, a scanso di letture fuorvianti o ambigue, dev’essere precisato che la Costituzione non prevede mandati a termine, per il capo dello Stato: sono sempre pieni per sette anni e non sarà pertanto lecito a nessuno eccepire alcunché al riguardo. Vale a dire che Napolitano lascerà il Quirinale solo quando riterrà di aver compiuto la missione e di sicuro non sotto la spinta di esortazioni interessate.
«Auspico fortemente che tutti sappiano onorare i loro doveri concorrendo nel rafforzamento delle istituzioni repubblicane… tutti guardino, come ho fatto io, alla situazione difficile del Paese, ai suoi problemi, alla sua immagine e al suo ruolo nel mondo». Il suo provvisorio saluto, all’ora di cena, è questo: un modo per vincolare in pubblico, «compromettendoli», i segretari e i leader dei partiti che poco prima si erano assunti di fronte a lui l’impegno a far uscire l’Italia dallo stallo.
Un modo per ricordare indirettamente loro che se, sulla scia del cupio dissolvi andato in scena nelle ultime settimane, lasceranno cadere i buoni propositi, lui stavolta ha a disposizione l’arma dello scioglimento anticipato. E suo malgrado vi ricorrerà .
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