Una fase nuova che non cancella le incognite
Non è chiaro se questo significhi cambiare lo schema della candidatura condivisa. Ma il sospetto è che la bocciatura di Marini alla prima votazione per il Quirinale vada al di là del suo profilo. E ponga un problema di fondo: la tendenza del Pd a lacerarsi non appena c’è odore di compromesso col Cavaliere.
A essere sconfitto, dunque, è stato più Bersani che l’ex presidente del Senato. Il Pd ha confermato infatti l’immagine di un partito ingovernabile, almeno nei gruppi parlamentari; e a rischio di passare da una subalternità all’altra, lasciando che siano gli avversari a scegliere di volta in volta la candidatura del prossimo capo dello Stato. Lo scontro al suo interno lo fa apparire non solo diviso ma con scarsa tenuta, incapace di affrontare l’accusa di volersi accordare col Pdl.
La decisione di votare scheda bianca al secondo scrutinio di ieri e al primo di oggi, quando per eleggere il presidente della Repubblica sono ancora necessari due terzi dei voti, è un modo per prendere tempo. Da una parte, il Pd non vuole archiviare l’ipotesi di trovare un candidato d’intesa col centrodestra. Dall’altra, vuole evitare che la propria unità interna vada in pezzi sull’altare del Quirinale. Eppure, non esistono garanzie di un capo dello Stato in grado di garantire la compattezza della sinistra.
Quanto è avvenuto ieri mattina è il sintomo di una somma di frustrazioni e risentimenti che arrivano da prima delle elezioni e si sono acuiti a causa di un risultato deludente, per il Pd. Si parla di una candidatura dell’ex premier ed ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi: un nome che troverebbe probabilmente il «placet» del movimento di Beppe Grillo dalla quarta votazione: a patto che si ritiri dalla corsa il giurista Stefano Rodotà , dice Grillo. Ma, significativamente, la cerchia bersaniana addita Prodi come un capo dello Stato che porterebbe l’Italia alle elezioni in tempi brevissimi; e il cui nome verrebbe sfruttato da Berlusconi in una campagna tesa ad accreditare una sinistra minoritaria e «pigliatutto».
Viene da pensare che il segretario del Pd non sia entusiasta di una simile prospettiva: la subirebbe, più che promuoverla. Rimane da capire quali alternative Bersani sia in grado di offrire agli interlocutori, e soprattutto a un partito indocile e fortemente antiberlusconiano. Non è scontato che basti agitare il fantasma di elezioni che falcidierebbero il numero dei parlamentari del Pd e farebbero vincere il centrodestra: Berlusconi le ha evocate ancora. L’esito è una confusione crescente. E il rischio che al Quirinale si replichi quanto è successo a palazzo Chigi: un inaccettabile nulla di fatto.
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