IL COMPROMESSO ANTISTORICO

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È vero. Nella teoria, un accordo programmatico pieno tra sinistra e destra sarebbe il miglior antidoto per curare i mali del Paese, spurgarne i veleni politici e lenirne i disagi sociali. Sarebbe la formula più proficua per rimettere in moto l’economia e riaprire il cantiere delle riforme costituzionali. Sarebbe l’argine più efficace per fermare l’onda a Cinque Stelle, che si nutre degli immobilismi parlamentari e dei bizantinismi regolamentari, si ingrossa con il disprezzo del professionismo politico inteso come male assoluto, si alimenta della teoria semplicistica di Jackson (su cui si è fondato lo spoil system americano) e quella rivoluzionaria di Lenin (imperniata sull’idea che anche una semplice cuoca può fare il capo dello Stato).
Ma, nella pratica, l’esperimento che riuscì nel 1976, quando Dc e Pci si accordarono per far nascere il terzo governo Andreotti, non è in alcun modo ripetibile. Le analogie storiche non reggono. Le condizioni politiche non esistono. È comprensibile che il presidente, per motivi di biografia politica e personale, sia rimasto legato a quel pezzo di Storia repubblicana, che vide un’Italia ferita a morte reagire e risollevarsi, in mezzo al piombo delle Brigate Rosse, lo scandalo Lockheed e una crisi economica pesantissima.
È quasi inutile ricordare quello che Napolitano già  sa meglio di chiunque altro. Quel monocolore democristiano di trentasette anni fa, che si resse sulla «non sfiducia» del partito comunista (oltre che del Psi, del Psdi, del Pli e del Pri) nacque grazie alla riflessione e all’elaborazione politica di due leader della statura di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. Fu la tappa intermedia di un percorso iniziato nel ’74 con il progetto berlingueriano del «compromesso storico», e culminato nel ’78 nell’approdo moroteo del governo di «solidarietà  nazionale» (nato proprio cinque giorni prima del tragico rapimento di Via Fani).
Bersani non è Berlinguer, e su questo non ci sono dubbi. Ma quello che conta di più, in questo parallelismo storico improprio e improponibile, è che Berlusconi non è Moro. Un abisso incommensurabi-le, umano, culturale e politico, separa lo statista di Maglie dall’uomo di Arcore. Non c’è accostamento possibile tra la filosofia con la quale Moro propiziò le «larghe intese» nel ’76 e l’idolatria con la quale Berlusconi propugna adesso la «grande coalizione». Il primo aveva un progetto generale, che puntava a sciogliere la democrazia bloccata di quella lunga stagione di Guerra Fredda unendo temporaneamente le forze dei due grandi partiti di massa. Il secondo ha un obiettivo individuale, che punta a barattare la formazione del governo con l’elezione del presidente della Repubblica, la trattativa sulle riforme con il suo salvacondotto giudiziario.
Lasciamo stare per un momento la parabola populista, cesarista e tecnicamente rivoluzionaria del Cavaliere che ha caratterizzato il suo quasi Ventennio. Mettiamo da parte il suo gigantesco conflitto di interessi, la sua campagna forsennata contro i magistrati condotta dalla trincea di Palazzo Chigi, la sua propensione a far saltare tutti i tavoli, dalla Bicamerale in poi. Torniamo al parallelismo tra lo schema moroteo dell’epoca e il proposito berlusconiano di oggi. Moro, con i suoi limiti e i suoi occhi chiusi sulle nefandezze del suo segretario Freato e dei capibastone delle correnti scudocrociate, chiese al suo partito di «non aver paura di avere coraggio», e quel coraggio lo pagò con la vita. Oggi l’unico coraggio del Cavaliere è quello del ricatto: il sostegno a «un governo Bersani», ma all’unica condizione che al Quirinale vada lui stesso o, in subordine, Gianni Letta.
Non basta tutto questo a considerare Berlusconi un alleato impossibile per chiunque? Questa consapevolezza, per gli eletti e gli elettori del centrosinistra, non significa che con il Cavaliere non si debba nemmeno parlare. Ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che l’avversario non si sceglie, perché lo hanno già  scelto gli italiani. Dunque il dialogo è essenziale. Purché, in questo tempo sospeso delle istituzioni, serva a individuare un metodo per far ripartire l’orologio dei poteri dello Stato, dall’esecutivo al legislativo. E prima ancora ad eleggere un presidente della Repubblica, dotato di tutte le prerogative e gli strumenti che la Costituzione gli assegna.
Se serve a questo e solo a questo, e quindi non a negoziare patti scellerati di altra natura o merci di scambio contro-natura, l’incontro tra Bersani e Berlusconi non è solo opportuno ma è doveroso. Se invece tra i partiti c’è ancora chi si culla nel sogno del «compromesso antistorico », farà  bene a svegliarsi in fretta, e ad acconciarsi ad un rapido ritorno alle urne. Il governo Monti ci ha momentaneamente salvato dalla bancarotta. Ma il suo evidente insuccesso sulle riforme di sistema sta lì a dimostrare che la «grande coalizione » all’italiana, e alla berlusconiana, non funzionerà  mai.


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La mummia televisiva

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Non più la libreria del leader giovane che seduce gli italiani con il sogno ceronato. Al suo posto un politico lento nel parlare, lo sguardo fisso, i capelli dipinti e il volto colorato come una mummia della nomenklatura sovietica. Dopo una settimana di silenzio, colpito dal flop delle preferenze nel forziere del suo elettorato, il premier si è presentato sulle reti televisive e radiofoniche (controllate o di proprietà ) per un appello al voto di quattro minuti.

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