Il ricorso agli esperti quando la politica è debole

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O quando una coppia in crisi decide di rivolgersi al consulente matrimoniale… Si tratta comunque di occasioni infauste, di cui si farebbe volentieri a meno.
In effetti, nei settant’anni di vita della nostra Repubblica, si contano rarissimi casi di questo genere, con un Capo dello Stato che richiede il consulto di una commissione ad hoc.
Uno solo, a mia conoscenza. Forse due, a voler largheggiare, entrambi risalenti alla presidenza di Francesco Cossiga (un Presidente, come si ricorderà , sui generis).
Entrambi riguardanti potenziali conflitti istituzionali gravi, in momenti storici e politici delicati, in qualche misura “di svolta”. La prima volta fu nel 1986, ed i “saggi” furono chiamati a pronunciarsi sul quesito inquietante su “chi comanda in caso di guerra”. Si era a ridosso dei fatti di Sigonella, quando Bettino Craxi aveva gestito a modo suo il confronto con le truppe americane all’interno della base siciliana sfiorando lo scontro armato, e Cossiga pretese un chiarimento sui rispettivi poteri di comando. Fu costituita una commissione di giuristi e di esperti militari “di destra, di centro e di sinistra” – come annoterà  lo stesso Cossiga – che in due anni di lavoro giunse a un verdetto per sfortuna del Presidente a lui ostile, escludendo che questi avesse “la competenza di interferire”.
La seconda volta risale al 1990, nella fase finale del mandato presidenziale di Cossiga, quando aveva già  abbandonato il primitivo profilo di “custode della Costituzione” per inaugurare il ruolo di “picconatore”. E riguarda le competenze del Consiglio superiore della magistratura, prodromo del futuro conflitto istituzionale tra “politica e giudici”. Si era nel pieno delle indagini sull’organizzazione segreta Gladio. Si profilava all’orizzonte la crisi sistemica di Tangentopoli. Emergeva il volto di una magistratura determinata, almeno in alcune sue parti, ad affermare e difendere la propria indipendenza dal potere politico. E il Capo dello Stato (pare irritato per una presa di posizione del
Csm sull’appartenenza dei giudici alla massoneria) procedette, questa volta con decreto presidenziale, alla formazione della cosiddetta “Commissione Paladin” (dal nome del presidente emerito della Corte costituzionale Livio Paladin, chiamato a dirigerla) che avrebbe dovuto, nelle sue intenzioni, ridimensionare le prerogative dell’organo di autogoverno dei giudici limitandone i poteri alla semplice gestione amministrativa. Ma anche questa volta gli andò male. I nove “saggi” che ne facevano parte, tutti giuristi di alto livello confermarono il “profilo costituzionale” del Csm e l’ampiezza delle sue funzioni, invitando il legislatore ad adeguare la normativa al dettato costituzionale.
Si tratta comunque di precedenti assai diversi dall’esperienza attuale, nella quale l’intervento dei “saggi” non è invocato tanto per rispondere a quesiti specifici, quanto per tentare di soccorrere in un vuoto lasciato aperto dalla politica e soprattutto dai partiti politici, incapaci di uscire dall’impasse in cui si sono cacciati e, per questo, potenziali portatori insani di una crisi sistemica dall’esito imprevedibile. Da questo punto di vista, se un precedente storico è dato riconoscere d’intervento di un collettivo di “sapienti” in un processo politico di svolta (pur in condizioni specularmente opposte a quelle attuali) questo potrebbe essere offerto dall’esperienza della Consulta Nazionale, agli albori della nostra Repubblica, quando in assenza di un parlamento eletto e in mancanza delle regole fondamentali, nel settembre del 1945 fu nominata con Decreto Luogotenenziale un’Assemblea di 304 membri (in parte indicati dai partiti, ma anche dalle organizzazioni sindacali, dalle associazioni culturali, dalle libere professioni o scelti tra i reduci e tra gli ex parlamentari antifascisti), con il compito di fare le veci del Parlamento fino all’elezione della Costituente, e di istruirne i lavori preliminari.
A scorrerne oggi l’elenco dei membri, non può non colpire l’alto livello delle competenze lì rappresentate. La quantità  di saperi, e l’elevato numero di “saggi”, nel senso proprio del termine, che vi lavorarono. Ne facevano parte filosofi come Benedetto Croce e Guido Calogero, storici come Adolfo Omodeo e Luigi Salvatorelli, giuristi come Piero Calamandrei e Vincenzo Arangio-Ruiz, uomini come Luigi Einaudi, Guido Carli, Enrico Mattei… oltre a tutti i grandi leader politici del tempo. Nessun’altra assemblea elettiva riuscirà  più a concentrare tanta qualità , in tutti i settant’anni successivi. Ma si trattava, appunto, di un inizio. E i “saggi” erano chiamati allora a inaugurare un tempo nuovo per una politica nascente, non per permettere di guadagnar tempo a una politica in affanno. Il che non esclude che quell’esperienza aurorale possa ancora parlarci in questa fase crepuscolare.
Essa ci dice, infatti, quale supporto possa offrire la “saggezza” alla politica in quella particolare condizione che va sotto il nome di “stato d’eccezione”, quando un Paese si trova a dover affrontare un passaggio di regime (è il caso del ’45). O quando è costretto a gestire una crisi sistemica come l’attuale, nella quale lo stato d’eccezione rischia di diventare permanente. Allora davvero i saggi potrebbero aiutare a individuare la via per uscire dal labirinto (per usare un’immagine cara a Norberto Bobbio), se solo riuscissero a restar tali. E a condizione che il monopolio della vita pubblica da parte degli apparati di partito (degli antichi sovrani in crisi, trasformatisi da mezzo in fine), si allenti. Perché il Pensiero è incompatibile con le macchine disciplinari, come ha magistralmente mostrato Simone Weil in un breve, fulminante testo ripubblicato di recente. E se è discutibile che il saggio possa fare compromessi con la ragion di stato, di certo esso non può nascere né convivere con lo spirito di partito.


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