Il Colle e la carta del «modello Ciampi»

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ROMA — «Salirò al Colle per spiegare gli esiti delle mie consultazioni e senza fare diktat», dice Bersani a metà  di una giornata ad altissima tensione. Un annuncio dal sapore paradossale, visto che i provvisori risultati della sua verifica politica non gli consentono proprio di lanciare ultimatum. Dopo il prevedibile «no» del Movimento 5 Stelle, il tentativo resta impaludato in un groviglio di spiragli e chiusure, bluff, ipotesi e subordinate più o meno verosimili (giocate soprattutto sul nodo della successione al Quirinale), che sono alla base della trattativa in corso tra gli emissari del segretario del Pd e il Pdl e la Lega, l’altra grande minoranza uscita dalle urne. Un marasma che Giorgio Napolitano segue con preoccupazione, assillato dall’urgenza di chiudere la partita anche per certi segnali in arrivo dalle piazze finanziarie, come l’impennata dello spread a quota 350.
Oggi, a quanto pare, si chiude. Pier Luigi Bersani ha voluto tentare «l’impresa» a ogni costo, pur sapendo che era proibitiva. La possibilità  gli è stata concessa, senza fargli fretta, ma con il sottinteso che non erano ammesse tattiche dilatorie. Il time over scatterà  tra poche ore e, quando il candidato premier si presenterà  davanti al presidente della Repubblica, non avrà  alternative: o sarà  in grado di esibire numeri sicuri (o patti politici tali da garantirgli un esplicito sostegno «tecnico» attraverso un gioco di presenze-assenze in aula o con altre forme di desistenza) che gli assicurino una vera maggioranza, oppure dovrà  rinunciare. Solo a questa condizione il pre-incarico ricevuto dal capo dello Stato potrebbe trasformarsi in un incarico pieno, in modo che la sfida della fiducia non sia un salto nel buio. Prospettiva che sarebbe un pericoloso azzardo per lui e per il Paese, che «di tempo non ne ha più», come ha segnalato più volte Napolitano.
A quel punto, nell’ipotesi — fino all’ultimo non scontata — di un fallimento, tutto tornerà  nelle mani di Napolitano. Che se, fino alle dimissioni di Terzi, poteva coltivare come strategia d’uscita un prolungamento di Monti e passare la pratica al successore, ora dovrà  invece provare subito la strada di un governo «di scopo», guidato da una personalità  autorevole e di caratura istituzionale (un precedente assimilabile è quello di Ciampi nel 1993), in grado di far convergere un vasto arco di partiti su quella Grande Coalizione che in Europa si giudica inevitabile, quando si ha un risultato elettorale bloccato, ma che è oggi respinta dal Pd. E allora, davanti a una sfida lanciata dal Quirinale, gli italiani misureranno fin dove arriva la responsabilità  di ciascuno. D’altro canto, il presidente lo ha lasciato capire bene nelle scorse settimane: qualsiasi governo che nasca con la tara di essere «di minoranza» è un rischio perché di solito su di esso grava la riserva per cui, se non riuscisse a superare la prima prova del Parlamento, non rimarrebbero poi alternative differenti da un immediato ritorno alle urne. Esattamente quello che il Quirinale non intende né può concedere, dato che siamo nel semestre bianco. Un tentativo che il capo dello Stato sa di poter compiere in base a un paio di risultati messi a verbale nelle sue consultazioni: 1) una parte assai larga delle forze politiche, anche per un ovvio istinto di sopravvivenza, non vuole un nuovo voto subito; 2) tutti hanno consapevolezza che la crisi economica e sociale impone un governo.
Da ultimo, l’ipotesi affiorata ieri di «andare avanti» comunque «facendo conto solo con un regime parlamentare» che «al limite può essere senza governo» (supponendo ci si riferisca alla citatissima esperienza del Belgio) non ha alcuna consistenza. Perché sarebbe contro i princìpi del nostro ordinamento. Insomma: è un’ipotesi che non esiste, né per il Quirinale né per i costituzionalisti, nessuno dei quali ci si è mai soffermato neppure ragionandone accademicamente.


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