Decine di militari sulla stessa rotta dei marò mai fatta la riforma delle missioni anti-pirati

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E SE accadesse di nuovo? Come se nulla fosse successo, ogni mese l’Italia spedisce i suoi marò sulla tolda di navi mercantili che sfilano lungo le coste del Kerala, seguendo la stessa rotta della Enrica Lexie con identiche regole di ingaggio. Solcano le acque calde e pescose in cui gettano le reti migliaia di pescherecci come il Saint Antony — quello sforacchiato dai colpi di fucile in cui sono morti Ajesh e Valentine, affondato in banchina sotto una non troppo attenta custodia giudiziaria — e proseguono verso l’Asia, o puntano al Mar Rosso per rientrare nel Mediterraneo. «Decine di missioni identiche», spiega lo Stato maggiore della Marina.
Non è cambiata una virgola. Nonostante sia trascorso un anno tra polemiche e accuse, tra audizioni e commissioni che impegnavano il governo a riscrivere le regole, non sono stati stretti accordi con l’India né con altre decine di Stati davanti alle cui coste transitiamo lustrando le armi, e con i quali continuiamo a non avere rapporti formali né accordi. Non è mutato di una virgola il protocollo di accordo tra la Marina militare e Confitarma, nato dopo la legge La Russa che nel luglio 2011 istruiva il servizio anti pirateria; né è stato chiarito chi brandisca lo scettro a bordo della nave, in caso di attacco. Una legge che oggi anche la Lega, che pure era al governo, scopre «raffazzonata» perché i marò «sulla nave non comandano più nulla, diventano contractors privati », come accusano i senatori Volpi e Candiani.
Dalla prima missione dei “Nuclei militari di protezione” abbiamo già  superato quota 150, entro fine mese saremo ad almeno 165.
Sette squadriglie di sei fucilieri del San Marco vigilano perennemente sulle merci degli armatori italiani ai quali lo Stato fattura il servizio, invertendo il tradizionale rapporto in cui è il pubblico a pagare la propria sicurezza a istituti privati di vigilanza. «Entriamo o ci avviciniamo alle acque limitrofe solo dove abbiamo accordi o rapporti consolidati, e con l’India non ci sono mai state aperture in questo senso», spiegano allo Stato maggiore della Marina Militare. «Lo stesso per il Sudan e per altri Paesi del Sud dell’Africa». Si naviga in acque internazionali ma all’interno delle “Zone economiche esclusive” altrui, rinnovando continuamente il rischio di un “incidente” che una parte rivendichi come attacco respinto e l’altra come brutale omicidio.
Il 18 aprile scorso l’attuale capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, spiegava in Senato che l’area presidiata dai fucilieri «copre una vastissima porzione dell’Oceano indiano», lungo «le principali rotte battute dai nostri mercantili» che dal Golfo di Aden vanno «verso il Golfo Arabico, l’Estremo oriente, il Sud dell’Africa e viceversa. Ma De Giorgi premetteva: «Uno dei punti cardine del progetto, la sottoscrizione di accordi coi Paesi rivieraschi per stazionamento e transito dei nostri fucilieri, è ancora in fase di definizione». A settembre, sei mesi dopo, «tenendo conto» del guaio dei marò una risoluzione bipartisan presentata in Commissione Difesa da Roberta Pinotti (Pd) e Paolo Amato (Pdl) impegnava il governo «anche mediante una variante al protocollo Difesa — Confitarma » a chiarire meglio «la ripartizione della responsabilità  fra comandante della nave e comandante dei marò in caso di azione». Macché, altri sei mesi e nulla di nuovo è sotto il sole.
Eppure il rischio è elevatissimo. Dieci giorni fa sei barchini pirati hanno assaltato un mercantile italiano nel Golfo di Aden. I fucilieri hanno sparato, i pirati desistito. «Abbiamo subito diversi attacchi, generalmente bastano colpi di avvertimento », spiegano alla Marina militare. E se ci scappasse di nuovo il morto e ci accusassero di aver colpito civili inermi? «Il quadro tecnico operativo non è stato mai variato. I marò sanno quanto è importante lavorare con la massima attenzione. E speriamo che i comandanti dei mercantili abbiano imparato la lezione». La regola è chiara: macchine a tutta forza, e tirar dritto


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