Dopo il piccolo tocca allo straniero
La piccola impresa se la passa malissimo. Il crollo della domanda interna ha già scremato il gruppone e non sappiamo ancora quante aziende chiuderanno i battenti prima che si concretizzi l’attesa staffetta tra ripresa e recessione. In mezzo a cotanto caos lo storico Giulio Sapelli ha giustamente pensato che ci fosse bisogno di un «pensiero» sulla piccola impresa meno condizionato dalle ricorrenti querelle sulla dimensione (ottimale) delle aziende. Ha scritto un pamphlet, Elogio della piccola impresa, appena uscito in libreria per il Mulino (pp. 116, 11), nel quale ci chiede un approccio diverso. Partiamo dall’antropologia piuttosto che dall’economia, suggerisce, e vedrete che capiremo qualcosa in più. E subito ci dà una traccia di lavoro. Scrive: «In Emilia-Romagna le piccole imprese sono figlie storiche degli operai licenziati dalla grandi aziende nelle ristrutturazioni degli anni Sessanta, e in Veneto, invece, del ritorno degli emigrati dai Paesi europei in cui s’erano diretti e del passato industriale veneto anch’esso soggetto al decentramento e all’espulsione degli operai qualificati».
Dunque, se vogliamo afferrare la questione dei piccoli bisogna analizzarla innanzitutto come fenomeno di mobilità sociale verticale, «forse il solo di dimensioni rilevanti» che l’Italia possa vantare. Nell’immediato dopoguerra accade che le classi subalterne composte di mezzadri (segnatamente nelle Marche) ed ex operai trovano la forza di mobilitarsi individualmente, di utilizzare la famiglia come una sorta di piattaforma di lancio e di creare così un nuovo segmento della borghesia italiana, un segmento che per caratteri identitari, sistema dei valori, rapporti con i dipendenti e le comunità non è «minore», bensì diverso. «L’Italia — annota in corsivo Sapelli — è il Paese per eccellenza della piccolissima e piccola impresa perché è tra le società mondiali in cui è più pervasivo il predominio di quella società naturale che è la famiglia». La piccola azienda, dunque, si fonda sulla persona e sulla fiducia, sull’inesauribile flessibilità di cui, per l’appunto, individui e famiglie sono capaci pur tra mille errori. Ma, avverte Sapelli, «è proprio per questo che la piccola impresa non cresce, perché essa si costituisce prima e fuori del mercato».
La sensazione che l’autore ci comunica è quella della fine di una lunga fase storica del capitalismo italiano che se vede i piccoli alle prese con il difficile superamento dei propri limiti strutturali conosce in parallelo il declino delle grandi imprese (che annota l’autore, tranchant come pochi, «non ci sono più»). «L’interazione tra centro e periferia, grandi e piccoli, è stata la forza del Paese. Oggi, senza centro o centri, manca un elemento di propulsione per la ricerca, la formazione, l’eccellenza. E il piccolo non basta più, da solo, a garantire una crescita endogena, ossia dal basso». Che fare, dunque?
Accettando l’impostazione sapelliana — e glielo dobbiamo — è bene muoversi cercando innanzitutto di rintracciare nuove risorse antropologiche, all’altezza dei fondatori. Se l’impresa è figlia della mobilitazione personale, allora bisognerà guardare ad almeno due fenomeni ancora poco studiati, il protagonismo femminile e l’imprenditoria straniera. Entrambi i segmenti portano con sé la straordinaria forza della motivazione che invece, in molti casi, è segnalata in calo presso le seconde e terze generazioni maschili. Sia le une sia gli altri, oltre alla «fame di impresa», recano modelli di business differenti nella governance quotidiana delle imprese e nella tessitura dei legami con le comunità di riferimento.
Come è ovvio, nel pieno della Grande Crisi il censimento delle risorse antropologiche disponibili appare una condizione necessaria ma sicuramente insufficiente. E allora occorrerà riflettere su almeno due blocchi tematici facili da individuare come decisivi per le sorti della piccola impresa. Al primo posto l’utilizzo delle tecnologie digitali che restano ancora un pianeta sconosciuto per i Piccoli e che offrono, invece, enormi potenzialità proprio per le aziende minori a struttura piatta e da inserire in rete. Subito dopo serve una mappatura più aggiornata dei cambiamenti intercorsi dentro i settori produttivi, nei rapporti tra grandi e piccoli, nella contaminazione tra manifattura e servizi. Se non ci si vuole rassegnare al declino bisogna tenere la visuale libera e a questo proposito le esperienze più innovative dei territori ci parlano di una nuova dialettica di scambio tra le multinazionali che operano in Italia e il mondo della fornitura.
P.S. Sapelli chiude il suo pamphlet ricordandoci che «la speranza è una virtù bambina, lo è perché possiamo prenderla per mano e camminare con essa». Come dargli torto?
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