I cinghiali contaminati da Chernobyl
Il responsabile del dipartimento radiazioni dell’Agenzia regionale protezione ambiente (Arpa) del Piemonte, il fisico Giovanni d’Amore, spiega così la strana vicenda dei cinghiali contaminati della Valsesia. Un allarme che ha portato la Procura di Vercelli ad aprire un fascicolo per avvelenamento di acque e sostanze alimentari, mentre a Torino si riunivano urgentemente i carabinieri dei Nas, dei Noe, i tecnici dell’Arpa, della Regione, del ministero della Salute e gli assessori competenti. Hanno deciso un ampio monitoraggio della zona, con prelievi anche su altri animali, sul terreno e sui vegetali e hanno sospeso la caccia di contenimento nei boschi interessati. Nei tessuti dei 27 capi analizzati dall’Istituto zooprofilattico di Torino le tracce di «Cesio 137» sono infatti dieci volte superiori al livello di guardia. «E arrivano con ogni probabilità dalla centrale di Chernobyl, esplosa nell’aprile del 1986», ragguaglia d’Amore.
Domanda: possibile una simile contaminazione a distanza di 27 anni e quasi tremila chilometri dal disastro nucleare? «Lo iodio 131 non presenta problemi perché decade in sei giorni, il Cesio no: ci vogliono 30 anni. La radioattività si accumula in varie sostanze come funghi, bacche, radici, e viene assorbita dalla selvaggina. Il cinghiale si nutre di tutto ciò». Esclude che la causa sia da ricercarsi nella vicinanza dei siti nucleari dismessi di Trino e Saluggia o nelle nubi radioattive di altri, più vicini, incidenti nucleari, in Francia e Slovenia. «In questi casi il livello di radioattività è stato trascurabile per l’Italia. Quanto a Trino e Saluggia non ci risultano rilasci di elementi radioattivi».
Fin qui, la stranezza di Chernobyl sulla Valsesia. Da Roma il ministro della Salute, Renato Balduzzi, ha voluto rassicurare: «I livelli di contaminazione riscontrati non costituiscono un rischio per la salute pubblica, in considerazione dei limitati consumi di carne di cinghiale e di selvaggina». Parole che hanno fatto sobbalzare più di qualcuno nella Valsesia, terra di cacciatori, di camosci, di cinghiali e di spezzatino. Qui c’è infatti una cucina che vive di questa carne. Qui c’è il Parco regionale del Fenera che è un po’ la patria del quadrupede dalle setole brune, con i suoi 300 esemplari che finiscono nel mirino delle 600 carabine ogni anno, anche se i 27 cinghiali contaminati sono stati abbattuti un po’ più su, nella zona alpina di Alagna, Scopello, Varallo. È lì che Alberto Vigone, giovane cacciatore, una mattina di novembre ha ucciso uno dei «radioattivi»: «Eh, e l’ho anche mangiato insieme agli amici. Ricordo di aver fatto una cenetta per dieci dopo aver portato ad analizzare la lingua della bestia al centro di controllo per escludere la trichinellosi (malattia della selvaggina, ndr). Questa di Chernobyl è una sorpresa assoluta. Mi ha chiamato ieri il veterinario per dirmi di non consumare la carne che ho congelato. Speriamo bene». Vigone è nel negozio di «Caccia e Pesca» di Carlo Gioria, un po’ il punto di riferimento delle doppiette della Valsesia. Mentre lui racconta la «battuta» di novembre, arriva Domenico Beccaglia, presidente dell’Unione Cacciatori Cinghialai: «Vent’anni di analisi e non è mai emerso nulla». Per Gioria, il negoziante, «questo è un problema perché la contaminazione, se c’è, non può riguardare solo il cinghiale: e le lepri? E i camosci? E i porcini? E le castagne?».
Da Torino e da Roma, comunque, tranquillizzano: «Non preoccupatevi». Nel negozio di Gioria c’è chi sospira e c’è chi si chiede per quale ragione si scopra solo oggi la radioattività dei cinghiali.
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