«Riciclaggio al tavolo verde» Indagine antimafia sui casinò

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ROMA — «Non pensate adesso a scene da film, lasciate perdere Altman o Scorsese, non abbiamo fatto irruzione come al cinema gridando: Fermi tutti, accendete le luci…», scherza Arturo De Felice, il capo della Direzione investigativa antimafia. I suoi uomini, ieri, sono entrati con discrezione negli uffici amministrativi dei grandi casinò d’Italia, Sanremo, Venezia, Campione e Saint Vincent. Ai tavoli della roulette, del poker, dello chemin de fer, nessuno si è accorto di nulla. Cosa cercavano gli agenti della Dia? «Ricordate la lezione di Giovanni Falcone? Follow the money, segui la traccia dei soldi — si fa serio ora il dottor De Felice —. Questo noi abbiamo fatto: ci siamo seduti davanti ai computer a caccia di dati relativi ad alcuni giocatori in particolare, vincite, perdite, quantità  e frequenza di soldi cambiati alle casse…». Eh già , come diceva Falcone, «lassamu futtiri il resto e cerchiamo i picciuli». Lo stesso metodo, in fondo, del capitano Bellodi ne Il giorno della civetta di Sciascia: «Bisogna inchiodarli sul denaro…». Sottinteso: i mafiosi. Perché la Dia, ecco la novità , grazie a mesi di appostamenti e analisi di filmati e fotografie, ha scoperto che tra i frequentatori dei casinò italiani, specie a Sanremo e a Saint Vincent, figurano decine di esponenti di spicco delle moderne ‘ndrine calabresi e dei clan di camorra. I riscontri di ieri sono stati fatti su un elenco di partenza di 60 nomi. E almeno 2 di essi, giocatori a Saint Vincent, sono stati coinvolti nell’inchiesta «Minotauro» sulle infiltrazioni di ‘ndrangheta in Piemonte. Altri, con precedenti per associazione a delinquere di stampo camorristico e vicini ad ambienti ‘ndranghetisti, hanno bazzicato Sanremo. Il sospetto allora è quello di sempre: che le sale da gioco rappresentino, per la criminalità  organizzata, un’occasione da non perdere per riciclare i soldi sporchissimi del traffico di droga e di armi. «Come 30 anni fa — ricorda il capo della Dia — quando i miei corregionali calabresi usavano entrare nei casinò con le mazzette di denaro ancora segnate provenienti dai riscatti dei sequestri. Il loro obiettivo era chiaro: trasformare quel contante scomodo in fiches pulite da presentare all’incasso».
C’è scritto anche nell’ultima relazione al Parlamento della Direzione nazionale antimafia: «Le case da gioco — afferma la Dna — rappresentano tradizionalmente per la criminalità  organizzata una forma di riconversione di denaro con risultati immediati… O attraverso l’acquisto diretto del controllo della casa da gioco, con importanti effetti indotti quali, tra l’altro, l’acquisizione delle strutture legate (alberghi, ristoranti, locali notturni). Oppure mediante l’abusiva concessione di prestiti ad alti tassi di interesse da parte dei cosiddetti “cambisti” per finanziare i clienti in perdita e ormai invisi all’ufficio fidi del casinò. O infine (con la complicità  dei cassieri) ricorrendo a giocate fittizie, cambiando rilevanti somme di denaro (in più tranche per sfuggire alle segnalazioni di legge) e ottenendo poi a fine serata un assegno emesso dalla casa da gioco che attribuisce la liceità  di una vincita alle somme provenienti da attività  delittuose…».
Ieri è stata acquisita «copiosa documentazione» e le direzioni dei quattro casinò hanno fornito «piena collaborazione» agli investigatori: questo hanno detto, alla fine dei controlli, gli agenti della Dia dei centri di Milano, Torino, Genova e Padova. Ma al di là  del riciclaggio, conclude Arturo De Felice, si tratta di un’inchiesta importante anche per i riflessi politici. «Nel Basso Piemonte, nel Ponente ligure, in questi anni, ci sono stati diversi casi di Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. E un modo per radicarsi nel territorio è proprio quello di fare soldi riciclando il denaro sporco», ragiona il capo della Dia. Di sicuro, lo scenario è molto cambiato rispetto agli anni Cinquanta, quando i primi calabresi mandati al confino a Ventimiglia si dedicavano al contrabbando del bergamotto per l’industria del profumo. Ora il business è un altro.


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