Fine mandato per Vaclav Klaus, sotto accusa anche per tradimento
Ma per Klaus è un fine mandato amaro: è stato messo sotto accusa per alto tradimento dal Senato della Repubblica ceca nella seduta straordinaria di lunedì 3 febbraio. I senatori, tra i quali hanno una maggioranza assoluta i socialdemocratici, hanno rinviato a giudizio il presidente uscente per una serie di motivi. In primo luogo c’è l’amnistia dichiarata il 1 gennaio di quest’anno, promulgata dal presidente e dal premier Necas, e subito presa di mira dall’opposizione per la sua norma ferma-processi, che ha dato un colpo di spugna su molti procedimenti penali riguardanti i delitti economici del periodo della «trasformazione economica», quando Klaus era primo ministro. Tuttavia i senatori hanno aggiunto altri capi d’accusa, come i ritardi, ampiamente voluti e ricercati da Klaus, nella ratifica del Trattato di Lisbona e della Carta sociale europea, oppure la scarsa collaborazione di Klaus con la Camera alta per la nomina dei membri della Corte costituzionale. Lo stato d’accusa tuttavia è in questa situazione un provvedimento più che simbolico. La pena prevista nel caso di condanna è la perdita e l’interdizione a vita dalla carica presidenziale, mentre non è affatto chiaro se la Corte costituzionale possa giudicare un presidente non più in carica. Tuttavia il cavallo di battaglia dell’opposizione contro il presidente uscente è stata senz’altro l’amnistia di gennaio, che ha portato alla liberazione di circa un quinto dei detenuti cechi. L’amnistia ha certamente dato un sollievo alle strutture detentive, che da tempo soffrono di sovraffollamento. Inoltre le strutture sono sistematicamente incapaci di assolvere al compito costituzionale della pena, la risocializzazione, in quanto il tasso medio di recidiva viaggia oltre il 60%. L’opposizione ha tuttavia scelto di cavalcare il senso di ingiustizia, che si è diffuso nella società dopo il provvedimento di clemenza, dimostrando una scarsa sensibilità verso una cultura giuridica garantista. I socialdemocratici hanno infatti portato avanti una campagna contro l’amnistia in toto senza distinzioni tra le parti censurabili e poco trasparenti, come la ferma processi, e le parti meritorie riguardanti il sistema carcerario. E in questa atmosfera la vera vittima dell’amnistia sembra l’amnistia stessa e qualsiasi altra proposta di riforma della giustizia. Nei dieci anni alla testa della Repubblica ceca Klaus si è distinto per il suo lavoro intellettuale e ideologico contro il processo di unificazione europea, contro l’ecologia e contro ogni forma di idea di progresso sociale, trasformando Castello di Praga nel punto di riferimento delle ali più tradizionaliste dei conservatori cechi. Il Castello ha quindi dato una visibilità inusitata alle realtà più reazionarie del Paese, ma dal suo seggio presidenziale Klaus non è riuscito formulare una proposta politica credibile anche sul piano organizzativo. E così qualsiasi proposta partitica o di associazione, sostenuta in questi anni dal presidente, è stata un fallimento completo. E rispetto a dieci anni fa Klaus non ha neppure una casa in cui tornare: il partito, che ha fondato e che ha governato il Paese praticamente per tutto l’arco degli anni Novanta, l’ODS, si ritrova in macerie dopo gli ultimi sei anni di governo, considerati disastrosi anche da molte fasce sociali tradizionalmente di destra. Con Klaus viene quindi archiviato un periodo fondamentale della vita del Paese, quello del passaggio all’economia di mercato. «La società ceca credeva che questo economista, che aveva studiato negli Stati Uniti, sapesse cosa bisognava fare. Intorno a Klaus si è così creato un mito, si credeva che fosse indispensabile per la trasformazione economica»,sottolinea il politologo Jiri Pehe. Un mito ormai dissolto nell’epoca della crisi economica e di una sempre indignazione per le disuguaglianze economiche.
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