La verità del singolo soffocata negli ingranaggi dello Stato
In venti pagine brucianti che provengono dalle altezze profonde della prima metà del XX secolo, Simone Weil scaglia una definitiva maledizione sul partito operaio, sia nella sua variante comunista che socialdemocratica.
Il contenitore del consenso coatto illustrato da Weber a inizio secolo, la forma politica della disperata socializzazione delle masse, già colpita dalla damnatio memoriae del totalitarismo nazista, nonché messa all’angolo della sua riconduzione ad appendice di quello Stato che doveva essere «abolito», come invece previsto dalla cultura leninista dell’organizzazione, è lo stesso soggetto politico che ha attraversato il lungo Novecento che porta in sé la propria critica e per finire, oggi, la sua dissoluzione.
Simone Weil, militante comunista in gioventù, operaia di fabbrica, mistica cristiana, ma soprattutto fino ai 34 anni della sua breve esistenza, pensatrice acuta della natura umana, lacerata tra spirito e corpo, decostruisce alla luce del concetto di verità , il dispositivo di cattura del consenso e di disarmo del pensiero individuale in cui si incarna la natura pubblica del partito politico. Scritto poco prima della morte nel 1943, il Manifesto per la soppressione dei partiti politici (Castelvecchi, euro 6), pubblicato nel 1950 sulla rivista «La table ronde», riassume le conflittuali conclusioni a cui Weil era giunta nella meditazione sul rapporto tra vita pubblica e vita privata. Lo scritto testimonia una doppia urgenza che aveva mosso la vicenda biografica della teorica di origine francese: riepilogare la storia dell’occidente europeo illuminandone le figure originarie nel sapere dei Greci, e condensare messianicamente nel presente l’evento irripetibile della vita singola.
L’ambivalente rilevanza di queste pagine di Simone Weil consiste nell’intrecciare, da materialista non dialettica, la critica della menzogna impersonata dal partito politico, e la verità del pensiero che può solo essere singolare. Per Simone Weil, il partito politico, per sua intima costituzione, raccoglie l’obbligazione della dottrina religiosa e l’aspirazione ad un sapere della verità unica, scindendo prassi individuale e appartenenza collettiva, e così staccando la natura umana dalla propria esistenza e collocandola nel dispositivo del dominio, nella menzogna del pensiero collettivo.
Nelle tre contestazioni che emergono in queste pagine – il partito come macchina di produzione di passione collettiva, come organizzazione che esercita pressione sul pensiero singolare e come sistema autotrofico -, si delinea la marcatura di qualsiasi dispositivo di controllo e regolazione sociale. Per questo Weil scrive che non esiste un pensiero collettivo, se non come rovescio del pensiero singolare, allo stesso modo in cui non esiste educazione se non come addestramento e assoggettamento. La prassi pubblica e la sfera privata sono affette da quella menzogna a cui Weil oppone l’esodo dalle grandi organizzazioni della rappresentanza, perché solo l’individuazione, cioè il radicamento nella natura umana consente un pensiero del comune che da quello singolare proviene e in quello ritorna. In quel punto di divisione, in quell’angolo di frattura che è anche spazio di condensazione, tra pensiero della verità e verità del pensiero, si manifesta la «luce irresistibile dell’evidenza».
Per Simone Weil il modo di pensare il partito è il modo che getta luce sull’ ethos europeo e indirettamente sullo jus publicum: alla menzogna in cui si vive nel partito si oppone la menzogna della rivolta contro il partito – di cui bisogna diffidare. In questo punto la riflessione non consente facili uscite di sicurezza dalla contraddizione insita nell’organizzazione della vita in società : alla cattura tutta politica del partito corrisponde infatti la cattura del soggetto tutta impolitica della reazione al partito. Con buona pace anzitutto degli interpreti di una Simone Weil «impolitica». E poi, profeticamente, di quei contenitori di società (che sia civile o meno) che organizzano l’astensione dall’alto e da lontano e il cui appeal si realizza nella reazione alla, non nella produzione di soggettività .
L’antidoto in cui consiste qui la proposta di Simone Weil è la creazione di circoli che «dovrebbero essere mantenuti in stato di fluidità », in una dimensione costituente la cui reciproca conoscenza è niente di meno che amicizia. «Fuori dal parlamento gli eletti si assocerebbero e dissocerebbero secondo il gioco naturale e mobile delle affinità ». Ciò che farebbe lo Stato sarebbe la sovranità individuale, naturalmente comune, in cui scompaiono sia il potere pubblico del partito che la reazione anarchica dell’individuo più o meno espropriato.
Nella verità della natura umana, che è ricerca di un sapere del vero, archeologia e ontologia, ricostruzione e relazione tra individui si corrispondono. È il luogo, raro, in cui si intrecciano biografia e saperi, il luogo del radicamento, uno spazio che promette un’alternativa praticabile al governo dei viventi. Ma, come si evince dal Manifesto per la soppressione, radicarsi non significa decrescere in un territorio, tantomeno rinchiudersi in uno spazio, che sia fisico o soggettivo e da lì organizzare la rivoluzione. Rapportando le tesi della filosofa tedesca al presente, poassiamo cogliere le potenzialià trasformatrici di alcune esperienze dei movimenti sociali contemporanei: ad esempio, l’esperienza NoTav segnala il fatto che rimanere fluidi, essere virali, scomporsi e deflagrare, non solo ha una dimensione costituente, ma ha la capacità di modificare i rapporti di forza nella realtà sociale. In questo verso, può essere tranquillamente affermato che soggettività politica e soggetto individuale si ricompongono nel loro rovescio materiale come, usando espressioni di Carlo Marx, esseri sensibilmente sovrasensibili, che incarnano astrazioni, facoltà di linguaggio, cioè prassi.
Nell’incomprensione di questo arduo eppure semplice nesso, il segnale che il pensiero di Simone Weil evidenzia è notevole: si tratta di elaborare un progetto politico per l’avvenire cercando il luogo archeologico del presente in cui la rinuncia radicale all’organizzazione coincide con la riappropriazione della prassi umana, cioè della sua organizzazione e della sua mondanità . Si tratta di percorrere all’indietro la modernità capitalista non per elaborarne la memoria storica, bensì per farla emergere e una volta per tutte farla saltare. In qualche modo Simone Weil allude al compito del genealogista e dello storico naturale, ma stavolta egli dev’essere militante, non di un partito o di una parte, bensì del tutto della relazione, del «tra» gli esseri umani in cui si danno comune e singolarità .
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