Le «larghe intese» l’ipotesi più forte contro nuove urne

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ROMA — Il tentativo di parlamentarizzare Grillo è fallito, ma la missione di Bersani è riuscita. Perché il segretario del Pd era consapevole di non poter stringere il leader del Movimento 5 Stelle nel recinto della politica tradizionale, sapeva anzitempo quale sarebbe stata la risposta alla sua offerta di dialogo. Per certi versi la violenta reazione del capo di M5S ha fatto il gioco del leader democratico, che aveva in mente un duplice obiettivo: aprire una discussione tra i grillini, che già  si mostrano divisi, e rassicurare al contempo quella larga fetta del partito e della base, ostili all’ipotesi di un governo di larghe intese con il Pdl.
E non c’è dubbio che l’opera di «stalking» proseguirà , che Bersani continuerà  anche nei prossimi giorni a perseguire la linea della «mano tesa» verso i 5 Stelle. Non a caso — dopo esser stato insultato — ha invitato Grillo al confronto in Parlamento. Perché la rottura non va consumata, perché dovrà  esser chiaro alla fine del percorso che il Pd avrà  esplorato ogni strada per arrivare a un accordo. Non è un paradosso, è la politica, che il comico ha imparato bene e in fretta, accettando il gioco delle parti e disponendosi nel ruolo che gli compete.
Insomma, era chiaro fin dall’inizio che non sarebbe stato possibile esportare il «modello siciliano» in Continente, per quanto Bersani abbia davvero cercato di stabilire un rapporto con Grillo attraverso la «via emiliana», quella costruita dal suo braccio destro Errani, che è l’uomo dei contatti e delle mediazioni riservate. Ma il sentiero è ostruito, siccome l’obiettivo del leader del M5S è noto: «Arrivare alle elezioni anticipate, se possibile entro l’anno». L’ha ripetuto anche ieri, a vantaggio di chi non avesse ancora capito. Tra questi di sicuro non c’è Vendola, terrorizzato dalle mosse di Grillo che aprono un varco al governo di larghe intese.
È sulla Grande Coalizione che tutti, inevitabilmente, sono chiamati a fare il loro gioco nella partita della legislatura. È un giro di roulette che potrebbe fallire, e infatti Grillo ci scommette confidando nella realizzazione del governissimo e nel suo rapido fallimento, che gli assicurerebbe una posta molto alta nelle urne. Perciò i partiti sono timorosi nella puntata, per questo serve tempo. Ne sarebbe servito poco se Monti non avesse deciso di partecipare alle elezioni, ed è un rammarico che Bersani condivide con tutto il gruppo dirigente del Pd. Perché con l’attuale gabinetto, che è ancora in carica, visto il risultato elettorale sarebbero bastati degli innesti politici nella squadra di palazzo Chigi per provare a proseguire.
Per i democratici è proprio l’esperienza del governo tecnico uno dei tanti ostacoli sulla strada delle larghe intese. E c’è un motivo se Bersani denuncia che «sono stati disattesi i patti» sottoscritti a suo tempo davanti a Napolitano: da una parte il Professore è sceso in campo con una sua coalizione, dall’altra Berlusconi si è progressivamente sganciato, fino a proporsi in campagna elettorale come il capo di un partito di opposizione, stringendo il Pd in una morsa. Il prezzo che è stato pagato è altissimo, perché mentre il centrodestra si è stabilizzato sull’asse Berlusconi-Maroni, nel centrosinistra è a repentaglio il rapporto tra Bersani e Vendola.
E allora, se con il governo tecnico «sono stati disattesi i patti», chi potrebbe garantire che la cosa non si ripeterebbe? Visto che il ruolo di Monti è ormai marginale, il problema per il Pd è l’affidabilità  del Cavaliere, a cui si unisce «un pregiudizio pre-politico» — così viene definito — del partito e della base verso l’acerrimo avversario. Tutto ciò si scontra con le richieste del Pdl, che chiede un «riconoscimento» e una «legittimazione politica» del proprio leader qualora si dovesse arrivare a un governo di larghe intese. Sciogliere questi nodi è complicatissimo, «più di un compromesso sul programma». Lo dicono sottovoce autorevoli esponenti del Pd e del Pdl, convinti che sulle riforme istituzionali si potrebbe arrivare a un compromesso tra sistema elettorale a doppio turno ed elezione diretta del capo dello Stato, mentre sui temi economici c’è interesse convergente a superare «la fase di austerità » attraverso un’azione in Europa.
Perciò serve tempo per verificare l’eventuale convergenza sulle larghe intese. Il convincimento reciproco è che la crisi economica e le pressioni internazionali per la stabilità  di governo, porteranno Napolitano a tagliare il nodo gordiano. Se così fosse, si aprirebbe il tema della premiership. I nomi del direttore generale di Bankitalia, Saccomanni, e del vice segretario generale dell’Ocse, Padoan, come possibili premier accreditano la tesi di un esecutivo a guida tecnica, che però avrebbe respiro corto rispetto alla necessità  di un governo di legislatura.
E invece solo un «accordo di legislatura» potrebbe scongiurare l’ipotesi che Grillo vinca la puntata: vorrebbe dire che le riforme sono state varate e che la sfida per la ripresa dell’economia è stata vinta. Servirebbero almeno due anni, insomma, e un governo politico. Perciò Bersani, in questo quadro, non sarebbe affatto fuori dai giochi per Palazzo Chigi.


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