Seconda Repubblica l’ora dell’apocalisse

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E ANCHE se seguitano a far finta di non aver inteso l’impellenza di quell’altro grido – «Arrendetevi!» – da ieri i partiti e i politici dei talk-show hanno cominciato a sentirsi ufficialmente «accerchiati» e il senso comune è che prima o poi se ne andranno davvero «a casa», come pure si è sentito con qualche assiduità .
A forza di evocarla, ma senza mai crederci troppo, l’apocalisse si è dunque abbattuta sulla Seconda Repubblica schiantandola dalle sue gracili fondamenta. A forza di fare i fenomeni e i buffoni, è arrivato, anzi loro stessi hanno aperto il varco e hanno chiamato il buffone e il fenomeno vero, un autentico castigo di dio, che da sempre acceca chi vuole perdere; ed ecco la perfetta punizione che nel vuoto non solo di idee e di progetti, ma anche di cautela e di buonsenso, si è via via sagomata secondo la logica del contrappasso, il più beffardo.
Non che fossero mancati gli avvertimenti e in qualche misura, a volersi tenere leggeri, anche i presagi. L’ultimo dei quali, qualche giorno fa, poteva rintracciarsi nella definitiva presa d’atto che massivi stormi di piccioni avevano preso d’assedio il Palazzo di Montecitorio facendo la cacca sui deputati – donde l’installazione
di preziosi spunzoni per evitare l’inconveniente.
Ma anche senza alzare troppo gli occhi al cielo, né infiammare più del necessario la fantasia, torna in mente il ricordo, o meglio la visione di una specie di cerimonia votiva e disgustosa assai celebratasi sotto quello stesso edificio nel deserto dell’estate 2011. Per cui l’uomo da cui oggi dipendono gli equilibri politici italiani si presentò lì come in processione con una rete piena di cozze che depose in cesta sotto il Palazzo ove si stabilisce la Norma. Ci fu anche il tempo per un piccolo comizio, del seguente tenore: «Questo che vediamo
è il più grande deposito europeo di mitili avariati, un’accozzaglia di cozze che non se ne vogliono andare! La crisi sono loro, dei veri ritardati morali, con gravi psicopatologie, hanno la prostata gonfia, per due tette e un culo sfasciano la famiglia, sono pieni di viagra, questo è un paese morto!». Venne allora sollevato un cartello a forma di bara, sopra c’era scritto: «Stroncati dal bunga bunga». Facile, anche allora, cogliere una viva sensazione di morte.
E così adesso, fra tanti principini e cavalieroni della barzelletta spinta e del buonumore posticcio, come in un sogno selvaggio quel pagliaccione professionale che recava frutti di mare marci e puzzolenti si è fatto re; e d’ora in poi converrà  che i vanitosi e gli astuti e gli aggressivi con portavoce e televisioni «al seguito », come gli viene di descriversi, si guardino bene dal definirlo, con vano disprezzo, «un comico» o «un giullare».
Perché Grillo certo che lo è, da quel mondo viene, e se si chiama «Beppe» è perché così l’ha battezzato Pippo Baudo che lo scoprì in un periferico cabaret, prima era «Giuseppe», ma adesso con questi risultati «pazzeschi», come diceva ai tempi, si connota ormai agli occhi del suo vasto elettorato come la risposta alla società  paralizzata, come il futuro, come il
personaggio che sta chiudendo un ciclo di potere, finalmente, definitivamente, e quindi da viversi al modo di un eroe, un profeta, un Gabibbo, uno sciamano, un redentore, un Savonarola, comunque un leader a suo modo rivoluzionario.
La tenuta pure sorprendente di Berlusconi, e allo stesso modo il crudo smacco del Pd, contano poco rispetto a questa novità  che sconvolge un passaggio cruciale e rende irriconoscibile il paesaggio politico italiano rivelando uno smottamento profondo, cataclismatico
la dove la catastrofe si estende oltre il disvelamento della vittoria, nel buio dell’incertezza sul futuro di questo gelido inverno elettorale.
E sia pure con il dovuto scrupolo e gli opportuni timori, verrebbe voglia di scomodare le intuizioni di Max Weber sul carisma, magari integrandole alla luce dell’immane sviluppo tecnologico, dell’estensione del sistema mediatico e del dominio degli spettacoli. Perché della vecchia politica Grillo – santone tribuno e clown – sembra più che il nemico, l’evoluto prolungamento, l’inesorabile supera-
mento, un modello più avanzato, iper-corporeo (vedi l’impresa dello Stretto) e iper-digitale, programmato da Casaleggio, capellone in giacca e cravatta e poster di Tex, per spazzare via tutto e tutti. Una sorta di castigamatti 2.0, magari da esportazione.
Però poi viene anche da pensare al paesino ligure dove Grillo vive in misterica agiatezza tra figli, piscine e Ferrari, Sant’Ilario, menzionato in quella canzone, «Bocca di rosa», così italiana e anche così malinconicamente pacifica nella sua trasgressione, e il pensiero va a certe dolcezze e carezze che egli dispensa al pubblico dei suoi comizi, gregge disperso alla ricerca di un pastore; vengono in mente certe pose un po’ da Gesù Cristo, personaggio da lui stesso interpretato nel 1982 (vinse il David di Donatello), la camminata sulle acque, il discorso della montagna, l’entrata in paese a dorso di asinello.
Chi può, dei vecchi politici usurati dalle manovre, dai telesalotti, dagli ictus e dalle minorenni, competere con Grillo? Pare di risentirlo: «In nome di Dio, andatevene! Onorevoli disonorati. Facce di bronzo, facce di merda, facce da impuniti, facce da dimenticare se si vuole riacquistare un minimo di serenità . Facce di responsabili dello sfacelo economico e sociale che si fanno il lifting, i sorrisi tirati ormai in un ghigno, l’incedere da uomini di potere che si credono statisti in scatola… Non capiscono che sono come Ceaucescu al balcone, Mussolini nel camion verso la Svizzera vestito da soldato tedesco, Hitler nel bunker di Berlino mentre dà  ordini a divisioni che non esistono più». Era appena l’inizio di gennaio.
Acquistano adesso un’altra eco, più sinistra, più cupa, le sparate che i vari Berlusconi e Bersani e Monti e compagnia cantante tendevano nei mesi scorsi a liquidare con un’alzata di spalle. Gli zombi, il Titanic, Norimberga, la Bastiglia. Veridiche anticipazioni si direbbero, nel giorno del giudizio, per non qualificarle profezie, quando ancora non è chiaro se il Movimento 5 Stelle è il primo o il secondo partito alla Camera. E chissà  se Cicchitto e Gasparri, Fioroni e Finocchiaro, Bocchino e Cesa, Maroni e Calderoli sanno o, se lo sanno, si rendono conto che Casaleggio, il guru del santone, coltiva il mito di Gengis Khan.
E d’accordo che la campagna elettorale è un tempo pazzo di semplificazioni e manicheismi, ma certo faceva impressione, l’altro giorno, che Berlusconi abbia voluto definire Grillo «l’uomo più cattivo del mondo». E poi sentire quest’ultimo che acchiappava e si rigiocava le stesse identiche formule del Cavaliere. A parte la prima casa, che anche per lui «è sacra», tra le estreme motivazioni sembra di riconoscere qualcosa di già  detto e ridetto: «Potevo starmene a casa mia, ma non me la sentivo di fare il pensionato a 65 anni mentre il mondo va allo sfacelo». E se «molti mi chiedono chi me lo fa fare» anche la risposta suona famigliare: «Me lo fa fare un sogno», eccotelo qui, pure lui.
Sarà  bene tener presente che la vittoria rende innocenti. E che molti, troppi, si scopriranno presto grilloidi, o addirittura grillini, come quel giornalista del tigì che, aduso finora ai più sofisticati bilanciamenti, ha composto per il Movimento un inno dal titolo: «L’urlo della rete ». E vabbè. Ma la paura che tutto in un certo mondo sia destinato ad andare di colpo a schiantarsi o lentamente a ramengo convive benissimo con la speranza di una «chiamata».
A Montecitorio e a Palazzo Madama la purezza dura al massimo dodici mesi, poi in genere le lusinghe romane – vedi gli extraparlamentari che chiedevano i biglietti della partita a Franco Evangelisti, ma vedi anche i leghisti come sono finiti – prendono il sopravvento, e più che politica si può pensare che è la vita. Ma intanto: «Non si risolve nulla mettendo qualcuno in galera, poi escono belli dimagriti, la galera per loro è una beauty farm a nostre spese: guardate Lele Mora, guardate Cuffaro,
mai stato così bello».
Ipse dixit, e qualche dubbio tali parole suscitano, l’isteria non sempre combinandosi bene con l’umanità .
Converrà  mantenersi freddi, dopo tanto calore. «Ci vediamo il 26 – ridixit – e ridiamo un giorno intero». Bene, il 26 sta anche passando, e anche negli annali della Repubblica, ma queste risate punitive non alleviano il disastro buffo che la sconcia e sventurata allegria della Seconda Repubblica ha pianificato dando il peggio di se stessa.


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