Tutto è sempre politico dai greci antichi a oggi

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Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff, il maggiore studioso del mondo greco a cavallo tra Otto e Novecento, dopo del quale non è ancora apparsa, nei più di ottant’anni che ci separano dalla sua morte, una figura che possa stargli alla pari, di origine prussiano e nobile, organicista e filo-platonico in politica, spregiatore del parlamentarismo e del culto occidentale per tale istituzione, interprete profondo delle ragioni della Germania nel primo conflitto mondiale, assertore esplicito del dovere, per i colti, di fare politica quando è colpa grave restare a guardare, continua a creare imbarazzo (com’è caratteristico dei personaggi ricchi di sostanza) sia agli ammiratori che ai detrattori. È un peccato che non si sia ancora potuta realizzare l’edizione in lingua originale dei suoi molti articoli di giornale degli anni 1914-1920. È un errore che andrebbe sanato: grazie a quelle prose scritte per i giornali si capirebbe meglio la capacità  del «reazionario» Wilamowitz di accorciare le distanze tra scienza e realtà  politico-sociale; si ammirerebbe la sua capacità  di divulgare (di farsi capire anche dal profano), virtù che scarseggiano anche nell’intellighenzia «democratica». E si vedrebbe meglio quanto egli stesso fosse sensibile alle questioni ricorrenti che investono il lavoro degli storici in generale e in ispecie di quelli che studiano le civiltà  antiche: a) a che serve tale studio? b) è davvero neutrale e senza presupposti?
Diego Lanza, grecista di larghissima dottrina ben oltre i cosiddetti e deprecabili «confini disciplinari», ha raccolto, con una pungente e nuova introduzione, i suoi saggi degli ultimi quarant’anni sui grandi «antichisti» dell’Otto e Novecento (Interrogare il passato, Carocci, pp. 256, 19). E ha incluso tra gli altri il suo saggio su Wilamowitz (Il suddito e la scienza) che tanta eco suscitò a suo tempo. Non so se oggi egli si riconosca in toto in quel peraltro efficace «ritratto» del barone di Wilamowitz: oggi che alcuni dei bersagli di quello spigoloso «Junker» (la democrazia parlamentare di tipo occidentale) sono giunti al termine del loro ciclo storico e hanno rivelato quanto appropriate, non contingenti né effimere, fossero le critiche a tale modello che vennero, nel fuoco del primo conflitto mondiale, dal versante che possiamo chiamare per brevità  «prussiano».
Ma il lato più coinvolgente della questione — utilità  e non neutralità  â€” (messo bene in luce dal Lanza sin dalla prima pagina dell’«Introduzione») è che proprio il cammino intellettuale e il lavoro dei grandi studiosi del mondo antico (Jaeger, Vernant eccetera, oltre, s’intende, allo stesso Wilamowitz) è stato un continuo cimentarsi con quelle due questioni. Esse tornarono (chi degli anziani non lo ricorda?) nella vampata «sessantottesca». L’ape e l’architetto, che fu allora un libro-culto, brandiva con forza la bandiera della non-neutralità  di qualsiasi scienza (fisica inclusa). Ma quasi nessuno ricordò allora che quella era stata anche la posizione dei grandi e meno grandi esponenti della cultura nazional-socialista.
Ricorderemo qui soltanto un minore, Friedrich Ferckel (Lisia e Atene, Wà¼rzburg 1937), che stigmatizzava la benevolenza degli studiosi anglo-francesi, tutti «democratici» in politica, verso l’oratore filodemocratico Lisia (V a.C.), e da ciò traeva ulteriore conferma del suo principio generale: «Non si dà  scienza senza presupposti»! Wilamowitz per parte sua disprezzava Lisia «assertore della democrazia radicale ateniese, grazie alla quale — scrive il barone — sperava di ottenere la cittadinanza». Lisia era un meteco. E in lui Wilamowitz vedeva l’analogo di quegli ebrei tedeschi che dopo la sconfitta del ’18 furono additati come corresponsabili del disastro perché a torto «incistati» nella piena cittadinanza del Reich. Tesi che peraltro è sottintesa nel suo importante saggio del marzo 1918 pronunciato al circolo ufficiali tedesco nella Bruxelles occupata, Popolo ed esercito negli Stati dell’antichità  (recente edizione a cura della Libreria Editrice Goriziana). Anche Arnaldo Momigliano del resto, in un non dimenticato seminario pisano su Wilamowitz, mise l’accento sulla implicita non neutralità  di tutta o quasi la produzione maggiore di quel grande.
Lanza apre il suo libro con la scena degli allievi che nel ’68 irrompono rispettosamente nell’aula di un docente, in piena lezione, e non ottengono risposta alla loro domanda (all’epoca alla moda) «a che ci serve la scienza che ci insegni?». L’utilità  è questione «gastronomica» avrebbe tagliato corto Bertolt Brecht. (L’utilità  dei suoni musicali sarebbe divertente da argomentare, fanfare patriottiche a parte).
L’introduzione di questo libro è velata di pessimismo intorno al senso e alla tenuta — tra l’altro rispetto ai pubblici poteri — del lavoro degli studiosi di antichità . Giustamente Lanza scrive che la domanda intorno all’utilità  di tale lavoro non viene più dall’effervescenza studentesca ma «dall’alto». Ma serpeggia anche nelle sue pagine l’idea che noi non si abbia più una convincente risposta al quesito intorno all’utilità . Lanza liquida come insufficiente l’elogio dell’«inutile» (che però non è argomento vile). E mette anche, giustamente, in guardia dai banali corti circuiti passato/presente che ci perseguitano (ad opera — direi — di un giornalismo semicolto, frettoloso, animato da curiosità  superficiali).
Io credo però che proprio dall’«esame di coscienza» cui Lanza ci sprona (quanto del passato «vive nella memoria» perché «socialmente significante»?) possa venire una rinfrancante risposta positiva, se solo si abbia la forza di guardare in profondità  quel grande esperimento storico (la civiltà  greca ed ellenistico-romana) che ci si para davanti e dentro cui molti (pur tecnicamente insegnanti) si aggirano come colui che si aggira per la foresta senza vedere la foresta. Quella civiltà  è tutta politica. Si entra in quella civiltà  non per gusto o diletto o esercizio, ma perché lì vediamo meglio ciò che, aggirandoci nel presente, non sempre capiamo: e cioè la integrale politicità  di ogni espressione intellettuale. Ciò vale nella parola politica in tutta la sua seduttiva falsità , e vale nella poesia (anche la più apparentemente impolitica), nel teatro, nell’arte figurativa, nella scienza, nella filosofia, nella religione come nell’ateismo degli antichi.
Quella politicità  latente e onnipresente è una straordinaria sfida intellettuale, è il laboratorio privilegiato di ogni sapere critico. È l’esatto contrario dello stolto ritornello «nulla di nuovo sotto il sole». La posta in gioco è la comprensione della sottigliezza e pervasività  di quell’attività  intellettuale e pratica che unifica l’agire umano e gli dà  un senso. E che indusse Aristotele ad una formulazione poi abusata ma che è un’altissima conquista concettuale: il politikòn zoòn («animale politico»).


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