Il tempo della retecrazia
Lo slogan che esalta il paese reale non è originale: lo coniò nel primo ’900 la destra di Charles Maurras, contro i mostri della democrazia, e il comunismo lo adottò per decenni. Meglio a questo punto se Berlusconi dicesse il vero: la sua operazione è riuscita, gran parte dell’Italia entra antropologicamente mutata in un’era effettivamente nuova – Grillo ha ragione – ma vi entra sprovvista di strumenti che le permettano di governarla, razionalizzarla.
Vi sono tuttavia differenze non trascurabili, fra l’irresistibile ascesa dei due leader. Il primo, quando entrò in politica, disponeva di ricchezze inaudite (accumulate con aiuti pubblici, va ricordato) che il Movimento 5 Stelle neanche si sogna. Soprattutto, possedeva un potere cruciale: tutte le Tv private, cui s’aggiungeva, da premier, il servizio pubblico Rai. Non solo: Grillo vede la crisi; Berlusconi s’ostina a negarla, garantendo che con lui al governo sarà spazzata via.
Siamo stati indotti a considerare il suo conflitto di interessi un impedimento. Fu invece il dispositivo che gli consentì di piegare i politici: in ogni accenno al suo dominio mediatico egli vedeva un’espropriazione. Non stupisce che il conflitto sopravviva tale e quale da anni. Stupisce che non sia stato visto come un problema gravissimo
prima che il giocatore entrasse in politica con quell’asso. Che non si sia capito subito l’essenziale: un controllo così pervasivo della comunicazione, in un paese dove l’80 per cento dei cittadini s’informa alla Tv, storce le usanze democratiche, e infine chiama vendetta. Spegne il pluralismo, corrompe e uniforma le menti, trasforma i vocabolari di tutti: governanti, oppositori, classi dirigenti, cittadini comuni.
Da questo punto di vista Grillo innova e dice cose non incongrue, quando denuncia i politici, le istituzioni, i giornali. Tende a fare di ogni erba un fascio – è giusto dirlo – ma è vero che tante erbe si son fatte volontariamente fasciare per anni. Al tempo stesso è figlio di quel dispositivo, al cui centro c’è un’idea di democrazia diretta che usa l’informazione non per seminare conoscenze ma per forgiare un pensiero unico sull’Italia, l’Europa, il mondo. Il suo mezzo non è più la televisione: questa scatola più che mai tonta, come la chiamano gli spagnoli. Né la stampa cartacea, che ha una memoria meno immediata di quella digitale. È il mondo non più inscatolato ma aperto, informe, straordinariamente libero di Internet.
Un mondo già scoperto da Obama, quando diventò Presidente nel 2009. Grazie al web, egli ha ottenuto due volte un mandato popolare che lo emancipa, se vuole, da lobby e partiti. Capace di disseminazione virale, la rete scavalca la senile televisione. Ma essendo informe è anche in grado di farsi bellicosa: nel libro di Grillo e Casaleggio, la parola guerra è ricorrente, incalzante (Siamo in Guerra, Chiarelettere 2011). Guerra «feroce e sempre più rapida», finita la quale «il vecchio mondo sparirà » e con esso i partiti di ieri, in Italia e ovunque.
Guerra totale, addirittura: un termine per nulla anodino, visto che nel 1935 lo usò in un opuscolo omonimo il generale tedesco Ludendorff. Nelle guerre totali non
si concedono interviste a giornalisti che ti interrompono con dubbi e domande, anziché applausi. Quel che conta, per Ludendorff, è «abbattere il morale delle
retroguardie» (le rappresentanze delle popolazioni non combattenti) più che l’avanguardia al fronte.
In questa lotta fra scatola tonta e web è il secondo, sicuramente, il Nuovo che ci aspetta. In un discorso tenuto nel febbraio 2012 per l’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi, il giurista Piergaetano Marchetti indica i motivi per cui il futuro è nel web, con le sue immense promesse e i suoi rischi. «La comunicazione e l’informazione di massa (attraverso la rete) è un potente canale e amplificatore di domande, di richieste di rendiconto, un assordante coro di «perché». Un fiato continuo sul collo di chi governa. Una pressione che genera risposte, trasparenza, informazione. E tutto ciò, a sua volta, in un circolo virtuoso, genera altre domande di
accountability». L’accountability – la cultura del render conto – latita in Italia. È strano che se ne parli così poco in campagna elettorale, visto il prezzo che paghiamo per la sua assenza.
Ma se la «scossa partecipativa» è formidabilmente liberatoria, osserva Marchetti, non mancano i possibili effetti perversi. Ogni grande liberazione distrugge altri diritti, ogni proclamazione di supremi valori declassa valori non meno importanti. Nella visione di chi guida il Movimento 5 Stelle non c’è coscienza dei limiti, perché i capi
interagiscono con la blogosfera rifiutando ogni corpo intermedio, in un tu-per-tu fatale, mai complicabile da persone terze. Non tutti i perché, non tutti i bisogni e i valori che sorgono in rete sono sacrosanti: vanno confrontati con altri princìpi, bisogni. Un’idea prova la sua forza se incoraggia forti idee opposte. Altrimenti si ossifica, e anche se modernissima muore.
In questo Berlusconi e Grillo si somigliano: non sanno contare fino a tre, e in fondo neppure fino a due perché il tu-per-tu col popolo è fusione nell’Uno. Ogni avversario è da abbattere: a cominciare da chi su Internet non naviga, e in un’Italia che invecchia il divario digitale è vasto. Parole come guerra e rivoluzione sono incendi. Ricordano la peste di Atene narrata da Tucidide, che «spezza i freni morali degli uomini» e «travolge gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina». La paura è la stoffa delle guerre e dei despoti, e Grillo lo sa quando dice, e spera: «Il mio movimento regola la paura» (The Economist 16-2).
Grillo farà eleggere molti parlamentari, ed è un bene perché il Parlamento è la sede dove gli interessi imbrigliano le passioni. Non gli interessi economici, ma l’interesse come lo si intendeva nel ’500: la passione razionale che controbilancia quelle irrazionali, e secerne l’interesse generale e la separazione dei poteri. Grillo e Casaleggio scrivono che sarà la rete a scrivere leggi e costituzioni. Ma la rete cos’è? Come delibera precisamente? Se la rete vuole la pena di morte la reintroduciamo? In Islanda (un modello, per Grillo) la Costituzione è stata ridiscussa in rete, ma riscritta da più piccoli comitati. In ogni mutazione c’è qualcosa da preservare, da non uccidere. Altrimenti entriamo nella logica del potere indiscutibile, legibus solutus, anelato da Berlusconi.
A questa mutazione, i partiti più o meno vecchi reagiscono spesso con lo smarrimento, se non l’afonia. Non gridano, è vero. Il centro-sinistra in particolare ripudia il modernismo della personalizzazione: ci sono anacronismi che durano ben più del Nuovo. Ma sul mondo che cambia è terribilmente indietro, senza vocabolari né inventività . Tanti cittadini sono delusi dal ceto politico. Reagiscono moltiplicando le richieste di rendiconto, con rotolanti cori di «perché». Chiedere «
un po’più di lavoro», come fa Bersani, è un soffio quasi inudito.
Tutto sarà diverso dopo il voto, anche se Berlusconi dovesse vincere. Sarà arduo discernere, in Parlamento, le passioni selvagge dagli interessi cittadini. La democrazia toccherà reinventarla, l’antico dibattito ottocentesco sul suffragio universale andrà ripreso, perché la scatola tonta e il web l’hanno sfinita. Ambedue puntano all’ingovernabilità , perché di essa si nutrono passioni difficilmente regolabili.
È uno dei rischi del Glorioso Mondo Nuovo promesso dal web.
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